Verso un ripensamento del lavoro sociale


Gianfranco Marocchi | 19 Dicembre 2023

Il tema del lavoro sociale è ormai da alcuni mesi al centro dell’attenzione, come evidenziato anche da Welforum in diversi contributi – ne hanno scritto tra gli altri Sergio Pasquinelli, Georges Tabacchi e Luca Pavani nella primavera scorsa. Nell’ambito della più generale disaffezione verso il lavoro, dove si diffonde il fenomeno delle “grandi dimissioni”, e accanto ad una sempre più drammatica carenza di personale sanitario documentata ogni giorno sui media, anche i segnali rispetto al lavoro sociale sono preoccupanti, primo tra tutti il fatto che le imprese sociali denunciano mancanza di personale educativo e difficoltà a trovare nuovi operatori, tanto che più di un ente pubblico si è trovato costretto ad accordare deroghe alle professionalità richieste dalle normative di accreditamento per la gestione di taluni servizi.

Nel dibattito su questo tema entra oggi CNCA con un documento presentato all’assemblea di Pisa del 14 – 15 dicembre 2023, a partire dal quale si propongono qui alcune riflessioni.

Il primo aspetto riguarda la natura stessa del lavoro sociale, definito nel documento “un gesto politico ad elevata professionalità”, affermando che “il lavoro sociale, inteso come l’impegno professionale volto a migliorare la vita delle persone e delle comunità, non può essere considerato separatamente dalla dimensione politica a culturale che lo permea”. La duplice dimensione del lavoro sociale come prestazione professionale e come atto politico espressione di una dimensione etico identitaria ha accompagnato questi decenni; per un lungo periodo la dialettica tra le due dimensioni si è orientata a enfatizzare e rivendicare l’aspetto professionale: affinché fosse riconosciuto che il lavoro sociale è frutto di competenze professionali elevante e non solo espressione del “buon cuore” del volontario con la conseguente necessità di adeguato riconoscimento economico, per l’esigenza dell’operatore (e dell’impresa sociale) di “laicizzare” la propria collocazione definendola in termini professionali, per spinte sindacali.

Questo ha portato a sviluppare identità professionali che soverchiano tanto la dimensione etica, quanto quella organizzativa: “sono un assistente sociale” e non “sono un agente di cambiamento sociale (e lo faccio svolgendo la professione di assistente sociale)” e non “sono un cooperatore sociale (che svolge il lavoro di assistente sociale)”. È un passaggio identitario di grande portata, forse frettolosamente archiviato come evoluzione inevitabile e anche positiva, senza sviluppare una adeguata riflessione su implicazioni e conseguenze, una delle quali richiamata anche nel documento CNCA: “la classificazione sempre più rigida delle professioni e delle prestazioni associate non sembra rispondere né alla varietà di sintomi di una società che ammala, né tantomeno alla generazione ed evoluzione delle professionalità sociali”.

Contenuti come questi sono stati (e sono) avversati perché, in una logica sindacale tradizionale, appaiono contrastare con l’impianto rivendicativo che è generalmente costruito appunto su base professionale, con una corrispondenza tra titolo, inquadramento, mansione e retribuzione; in realtà, a ben vedere, la situazione è più complessa, perché, insieme all’auspicabile riconoscimento dei ruoli professionali, ciò ha portato con sé una sorta di “proletarizzazione del lavoro sociale”, in cui tutto è intercambiabile: un operatore con un altro, OSS con OSS, educatore con educatore, e un’impresa sociale con un’altra, magari transitando il personale preesistente; e qualcuno – operatore e imprese – che per disperazione o opportunismo in questo gioco punta sul ribasso si troverà sempre, con le ovvie conseguenze sui costi e sugli stipendi. Questo scenario, in cui i mansionari hanno sostituito i progetti di cambiamento sociale, si è rivelato nel breve periodo premiante, ma nel medio periodo discutibile, avendo come esito da una parte un lavoro sociale sterilizzato e anonimo, dall’altra un conseguente livellamento verso il basso delle retribuzioni. In sostanza, se cerco “operatore che abbia come mansione il mantenimento l’igiene personale”, un OSS vale l’altro, se cerco un soggetto (collettivo) di cambiamento sociale, no. Mentre, anche a livello di percezione sociale, la depoliticizzazione del lavoro sociale e l’enfatizzazione degli aspetti tecnici, porta a sottovalutare l’importanza del lavoro svolto e quindi la sua remunerazione.

Di qui si può partire per esplorare altri aspetti collegati. Questa idea del lavoro sociale come catena di montaggio, quasi un taylorismo fuori tempo massimo, come emerge in tutta la sua fastidiosità nei minutaggi alla base dell’organizzazione e della tariffazione in talune strutture, è distruttiva da molti punti di vista. Scrive CNCA: “lo schiacciamento sul fare e sulla produttività, anziché migliorare l’efficienza, ha compromesso profondità e significato dell’azione sociale, amplificando la solitudine operativa dei lavoratori e delle lavoratrici”. Anomia, sradicamento, solitudine dell’operatore sono un secondo aspetto che vale la pena di approfondire. Il tema è stato sviluppato in diversi articoli, sia su Welforum che su altri media, da Georges Tabacchi, che ha messo più volte in luce la problematicità di situazioni organizzative disarticolate, in cui, sempre in omaggio alla ricerca di produttività, l’operatore sociale svolge le proprie ore lavorative suddivise su più servizi, talvolta anche più di due, con la conseguenza di sentirsi “di passaggio” ovunque, senza sviluppare identificazione in un progetto di cambiamento. E, a questo proposito, una riflessione sulla dimensione organizzativa non può mancare. Anche da un punto di vista meramente fattuale, la storia dell’operatore sociale “politico”, l’operatore sociale che produce cambiamento, è immancabilmente una storia collettiva. È una storia di persone che si sono aggregate in diverse forme, generalmente cooperative, talvolta associative, dando vita a percorsi collettivi ad alta intensità relazionale; talvolta non privi di conflittualità, ma frutto sempre di una storia condivisa tra più persone. L’operatore che lavora in modo destrutturato, senza sviluppare radicamento e appartenenza, è un operatore lasciato alla deriva, per quanta formazione e supervisione possa ricevere – altro caso di risposta “tecnica” ad una problematica di ben altra natura.

Ma la citazione del documento CNCA evidenzia anche un altro aspetto rilevante: questo nomadismo organizzativo spesso si combina con pressanti da richieste di risultato, frutto della cultura velenosa dell’impatto sociale e di una concezione salvifica, redentiva, del lavoro sociale, che cerca numeri e risultati il più presto possibile: quanti hanno iniziato a lavorare, quanti hanno smesso di drogarsi, quanti non sono recidivi… Questa cultura erode alcuni dei principi fondamentali del lavoro sociale, che è fatto di pazienza, dell’attendere i tempi di cambiamento delle persone, rispettandone le fatiche. Questa cultura perverte la valutazione, facendone un regno degli uffici stampa incaricati di sbandierare meravigliosi risultati anziché il luogo di confronto tra operatori riflessivi orientati al miglioramento. Questa cultura – ancora dal documento CNCA, che adotta un linguaggio in cui si parla di “utenza, clienti, prestazioni – fa annegare l’operatore sociale come il pesce fuori dall’acqua: “un’economia che considera i lavoratori in funzione esclusivamente della capacità di produrre e consumare riduce le persone a strumenti, negando gli spazi in cui una persona possa veder realizzata se stessa e i propri sogni”.

Sradicato dai legami organizzativi e dalla sua identità di agente di cambiamento, immerso in un clima culturale alieno, all’operatore sociale resta solo la fatica dei bisogni delle persone che incontra, cosa che spesso genera una risposta difensiva, con soluzioni – ancora dal documento CNCA – quali totem, plexiglass, call center – e, aggiungiamo noi, campanelli, porte di sicurezza chiuse a chiave, segreterie, soluzioni che proteggono, ma allontanano la possibilità di sentire il lavoro sociale come “momento di esperienza umana non alienata, conforme ad aspirazioni e desideri più veri”. O, come scrive ancora Tabacchi, l’operatore di comunità che si rinchiude in ufficio, certamente per la crescente mole di lavoro burocratico, ma anche per fuggire dalla relazione, che nella situazione sopra descritta diventa fonte di fatica invece che essere l’elemento qualificante del proprio lavoro sociale.

Al termine di questo percorso, è necessario un affondo ulteriore sul tema economico, che incrocia tutte le dimensioni sopra richiamate. È del tutto evidente che un lavoro sociale, anche restituito del suo senso, ma privo di risorse economiche adeguate, non ha futuro. Per andare dall’enunciazione alla pratica, è necessario operare su diversi fronti, ciascuno dei quali meriterebbe una discussione approfondita:

  • il ripensamento dei rapporti con le pubbliche amministrazioni, radicando una cultura del partenariato tale che chi finanzia i servizi percepisca le risorse corrisposte al Terzo settore non come l’attribuzione di un vantaggio a privati, ma come un investimento nel benessere del territorio. Pur nella consapevolezza che oggi molte esperienze sono al contrario penalizzanti dal punto di vista economico, lo sviluppo degli strumenti di amministrazione condivisa va orientato anche in questo senso;
  • un ripensamento dei sistemi di welfare, in particolare cercando una relazione virtuosa tra interventi di comunità e interventi professionali; il tema richiederebbe ben altri spazi, ma, in generale, si tratta da una parte di includere nel welfare le azioni di prossimità, che possono rispondere ad una parte dei bisogni, dall’altra di remunerare in misura maggiore gli operatori professionali che assumono un ruolo di animatori delle risorse comunitarie;
  • il contrasto senza mediazioni dei fenomeni di dumping contrattuale e della cooperazione spuria;
  • (e, ovviamente, investimenti adeguati sul welfare).

Si tratta di temi qui appena accennati; ma quello di cui bisogna essere consapevoli, in una stagione di rinnovo contrattuale, che gli auspicabili aumenti contrattuali, pur assolutamente necessari, rischiano di rimanere lettera morta.

 

Leggi il documento “La dignità del lavoro sociale”