Disabilità e Lavoro: siamo sempre più in ritardo


Marino Bottà | 4 Giugno 2025

La velocità è la caratteristica della contemporaneità. Sempre più veloci nel fare, nel ricevere, nel veder soddisfatti i propri bisogni. Questo sul piano sociale produce rapidi cambiamenti economici e sociali che inevitabilmente causano nuove contraddizioni e problemi che le classi dirigenti sono sempre meno in grado di affrontare. Uno di questi è dato dalla denatalità. Il numero di figli è in costante calo (del 3,4 % nel 2023). Nel 2008 i nati erano 557.000, nel 2023 il numero è sceso a 379.000; il dato più basso di sempre con un tasso di natalità del 6,4% per mille abitanti. Ben al di sotto della media europea (10,5 nati per mille abitanti). Una donna su quattro, che oggi compie quarant’anni, non ha figli e diventa madre ad un’età media di 31,7 anni. Questo trend proseguirà nei prossimi anni, visto che mancano i presupposti sociali, economici e culturali per un cambiamento. Nei prossimi 30 anni la popolazione attiva passerà dagli attuali 37,4 milioni a 27,4 milioni. Attualmente si contano poco più di 10 milioni di persone fra i 18 e i 34 anni con una perdita di 3 milioni negli ultimi 20 anni. Il calo demografico complessivo è del 2,3%. Rovescio della medaglia di questo fenomeno è l’invecchiamento della popolazione. L’indice di vecchiaia nel 2023 ha raggiunto 193,1 anziani ogni cento giovani. L’Italia si distingue come uno dei paesi con la popolazione più anziana al mondo, seconda solo al Giappone, e prima in Europa. L’aspettativa di vita negli ultimi decenni è aumentata considerevolmente, grazie ai progressi della medicina e alle migliori condizioni di vita. Nel 2030 gli over 65 aumenteranno di 1 milione e 500 mila (i centenari sono cresciuti del 100%, pari a n°22.552) mentre quelli in età lavorativa diminuiranno per un eguale valore. Questo incrementerà il numero dei pensionati (attualmente un incremento del 5,4) e quindi metterà a dura prova il sistema previdenziale, come già denunciato dall’attuale direttore dell’INPS1.

Inoltre la denatalità unita al gap fra scuola e mondo del lavoro sta producendo quello che viene definito il mismatch. Al di là dello storico divario fra scuola e lavoro, la ricerca scientifica, e l’evoluzione tecnologica hanno causato un disallineamento fra l’uomo, il lavoro, e l’economia. In attesa di una riforma epocale del modo di intendere l’educazione, la formazione e quindi la scuola, il divario fra domanda e offerta è destinato a crescere. La recente riforma della scuola superiore (4+2) risolverà questo problema solo in parte, considerato che comunque mancheranno all’appello un numero crescente di studenti a causa della denatalità. Va anche considerato che il 31% dei giovani fra i 18 e i 24 anni non ha alcuna formazione, e il 21 % non studia e non lavora; mentre solo il 35,7 % delle persone fra i 25 e i 64 anni ha una formazione certificata. La dispersione scolastica è pari all’11,5 %, con un analfabetismo di ritorno pari al 30 %. L’abbandono universitario riguarda 15.000 studenti ogni anno nella sola Lombardia. A questo si aggiunge un fenomeno da non sottovalutare rappresentato dal disagio giovanile. Circa il 20% dei giovani dichiara di sentirsi solo. Il suicidio è la seconda causa di morte fra i giovani dai 10 ai 19 anni (0,40 ogni diecimila abitanti), il tasso è aumentato del 167 % per le donne, del 91 % per i maschi. Nella stessa fascia d’età 1 adolescente su 7 ha un disturbo mentale. Nel 2023 sono stati registrati 3.780 decessi per anoressia. Il numero di accessi al pronto soccorso per autolesionismo è aumentato del 188 % fra gli adolescenti. I disturbi psichici sono pari al 28 % della popolazione, in crescita di 6 punti rispetto al 2022. Gli inattivi hanno superato gli occupati di 337.000 unità, mentre 1 milione e 300 mila giovani sono in cerca di lavoro. Le famiglie con figli sono 3 su 10 (pari al 29,8 %). Il 63,3% dei giovani fra i 18 e i 34 anni vivono in famiglia (6 ogni 10!). Anche gli adulti che lavorano sono in difficoltà: il 76% denuncia un disturbo psicologico riconducibile al lavoro. I rapidi cambiamenti sociali e tecnologici (smart, internet, social) hanno cambiato le relazioni sociali, investendo il singolo individuo, l’uomo antropologicamente fin qui inteso. La crisi finanziaria, le pandemie, le trasformazioni climatiche, le guerre, la crisi della globalizzazione e la crisi dell’impero d’occidente, spingono le persone in uno stato di costante incertezza, che ingenera ansia individuale destinata a trasformarsi, se non gestita, in ansia sociale.

L’evoluzione tecnologica sta rivoluzionando il mondo del lavoro. In cinquant’anni di accelerazione continua siamo passati dalla meccanica, alla meccatronica, all’informatica, e ora all’intelligenza artificiale. Si stanno aprendo nuovi mercati, nuove professioni ecc. Purtroppo la scuola non è per nulla al passo con i tempi e non offre percorsi adeguati per poter accedere rapidamente al mondo del lavoro. I giovani più fragili rischiano di non accedervi mai.

L’insieme di questi problemi causa alle aziende serie difficoltà nel reperire i lavoratori di cui hanno bisogno. Nelle imprese che si occupano di elettronica ed elettrotecnica nel 2019 la difficoltà di recuperare mano d’opera era pari al 39,1 %, nel 2023 è salita al 58 %. Nel 2023 nel settore dei servizi mancava il 40 % del fabbisogno, a fronte del 9 % nel settore manifatturiero. Nel settore del lusso entro il 2028 serviranno 276.000 nuovi lavoratori, nella moda 75.000, nell’ alimentare 60.000, nel design 29.000. Nei prossimi 5 anni 682.000 dipendenti pubblici lasceranno il posto di lavoro per pensionamento. Nel 2030, con gli attuali flussi di immigrazione in entrata pari a 450.000 unità contro i 600.000 in uscita, mancheranno mediamente all’appello 150.000 lavoratori ogni anno.

Questi fenomeni sociali causeranno un’ulteriore carenza di lavoratori in molti settori produttivi, infatti già da alcuni anni siamo costretti a ricorrere a mano d’opera straniera nei settori del: turismo, agricoltura, commercio, servizi alla persona, ecc. L’Italia ha visto un saldo migratorio negativo negli ultimi anni, con più persone che emigrano rispetto a quelle che immigrano. Nell’ultimo decennio oltre un milione di italiani sono andati a vivere all’estero. Solo la metà dei fuoriusciti è rientrata. Attualmente gli italiani all’estero sono 5.940.000. A questo fenomeno si aggiunge quello dell’emigrazione dei cervelli. Le basse retribuzioni, la difficoltà di carriera, l’assenza di meritocrazia, un mercato del lavoro ingessato spesso spingono all’estero i giovani che hanno completato gli studi, causando una perdita di capitale umano e di talenti. Tutto questo produce conseguenze estremamente negative per le aziende. Esse sono perennemente in difficoltà nel reperire il personale qualificato, con conseguente riduzione della produttività, della crescita e della competitività, con una ricaduta negativa sull’economia generale in quanto causa un rallentamento della crescita economica del Paese e un aumento delle diseguaglianze sociali. Questo comporterà anche un calo del Pil pro capite del 17 %, che si assommerà al continuo aumento del debito pro capite di 2.240 € l’anno, compromettendo così il benessere individuale e comune. Ci attendono ulteriori trend e scadenze: da una parte, crisi della globalizzazione e ritorno al protezionismo, aumento delle spese militari, nonché conclusione del PNRR e ricostruzione dell’Ucraina, dall’altra.

Un’ulteriore preoccupazione deriva dal rapido sgretolamento delle conquiste sociali che hanno prodotto il Welfare State italiano ed europeo. La cultura assistenzialistica di delega allo Stato è destinata a scomparire. È pertanto necessario sviluppare un welfare di prossimità, una ritrovata cultura della solidarietà, del mutuo aiuto, attraverso il coinvolgimento dell’intera comunità di appartenenza. Chi è in difficoltà e non disporrà di un’autosufficienza economica, per provvedere autonomamente, dovrà obbligatoriamente ricorrere all’aiuto di chi gli è socialmente più vicino. Questo comporterà uno sforzo individuale e sociale notevole in quanto contrasta con la cultura attuale sempre più individualista, autarchica, ed egoista.

Affrontare queste contraddizioni è fondamentale per l’evoluzione del nostro Paese e richiede politiche e strategie concrete da parte di tutti gli attori sociali e politici, non solo per un’esigenza sociale ed economica, ma anche per evitare un ritorno al passato, alla cultura dell’emarginazione e della segregazione per chi è ritenuto improduttivo o diverso dalla maggioranza dominante. Per arginare qualsiasi deriva sociale e culturale è necessaria una presa di coscienza di quanto sta accadendo intorno, spesso a nostra insaputa. Cominciamo con la disabilità, prendendo atto che la presenza sui social, nei programmi televisivi, o negli spot pubblicitari ecc. non vuol dire vivere in una società inclusiva e tanto meno essere attori protagonisti della propria vita e di quella della propria comunità. Si deve interrompere il cammino a ritroso nell’interesse non solo delle persone disabili, ma di tutta la società. Bisogna promuovere cambiamenti positivi, fare proposte efficaci e se necessario costruire modelli alternativi per supplire le carenze del welfare state attraverso un welfare di prossimità solidaristico che coinvolga ampi strati sociali delle comunità territoriali. Dobbiamo uscire dall’ inutile attesa di risoluzioni calate dall’alto e generare un cambiamento positivo dal basso.

Le persone con disabilità nel mondo sono un 1 miliardo e 300 milioni. In Italia sono oltre 4,5 milioni2; una minoranza che vede quasi un milione di iscritti negli elenchi del Collocamento Disabili. Per facilitare la loro partecipazione sociale e migliorare la qualità di vita è indispensabile riformare la legge 68/1999 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”. Questa necessità è stata evidenziata da Istituzioni internazionali (Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità), parti sociali e politiche, e da una moltitudine di esperti e professionisti interessati. Le prime critiche al sistema di collocamento italiano risalgono ad una sentenza della Corte di Giustizia Europea del 4.7.2013, C-312/11 in cui si denunciava la mancanza di norme efficaci per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Successivamente, il Comitato Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità incontrò una delegazione del Governo Italiano per sottolineare le conclusioni negative emerse dal primo rapporto dell’Italia sull’attuazione dei principi e disposizioni contenute nella Convenzione Onu.

L’ultimo pronunciamento in ordine di tempo venne dall’allora Ministro del Lavoro Andrea Orlando che, dopo aver constatato la “fortissima disomogeneità territoriale”, affermò in Parlamento: “Sono consapevole che partiamo da un quadro critico, se non addirittura, molto critico …”. A queste critiche si aggiungono quelle provenienti dall’associazionismo e da singole personalità politiche. La riforma della Sessantotto, alla luce dei cambiamenti socio-economici, e del bisogno occupazionale delle persone con disabilità, non è più procrastinabile. L’ultima attenzione istituzionale risale al 2015, anno in cui vennero emanati gli ultimi provvedimenti normativi, ovvero i Decreti legislativi 151 e 150. In seguito la politica si dimenticò perfino i 20 anni della legge 68 e del Collocamento mirato. Non sono state da meno le Regioni, troppo impegnate altrove per accorgersi della deriva del loro sistema di collocamento. Nel contempo i servizi provinciali hanno continuato a vivere nella immutabile quotidianità. Anche il dibattito, la critica e la riflessione si sono assopite in un disinteresse generale e nella rassegnazione di molti. Nel frattempo la sfiducia nei confronti del Collocamento mirato è cresciuta fino a spingere i disoccupati, a non iscriversi (fenomeno riscontrabile dal divario numerico tra gli iscritti al collocamento e le nuove certificazioni di invalidità in età lavorativa). La delusione rispetto alle aspettative li ha spinti ad arrangiarsi, a rivolgersi a soggetti privati, o a rifugiarsi nell’ assistenzialismo. Purtroppo anche la rivoluzione tecnologica non creerà nuovi posti di lavoro per le fasce più deboli della disabilità (circa il 70% degli iscritti3), per loro si prospetta la disoccupazione a tempo indeterminato, accompagnata dall’ invisibilità sociale, o dal rifugio palliativo nei social o l’inserimento in strutture speciali. La rivoluzione tecnologica non offrirà nuove professioni e nuove possibilità di inclusione lavorativa alle persone con difficoltà cognitive o con bassa scolarità. Quindi è necessario un cambio di strategia, rinnovare la cultura dell’inclusione lavorativa, promuovere servizi territoriali in grado di ridare fiducia e prospettive a centinaia di migliaia di persone disabili disoccupate e alle loro famiglie. Per fare questo bisogna avere l’onestà intellettuale di osservare oggettivamente la realtà.

Le norme – Il sistema di collocamento si fonda sulla Legge 68/1999, ma la sua applicazione è delegata alle Regioni. Si è così creato un sistema dove ogni Regione e ogni Provincia ha organizzato in proprio gli uffici e l’applicazione della legge. Infatti troppo spesso le aziende e le persone disabili devono rifarsi agli “usi e costumi locali” e subire le volontà dei responsabili degli uffici. A questa già grave disfunzione si aggiunge una pletora di leggi, decreti, circolari, note esplicative, interpelli, ecc., a cui si aggiungono le disposizioni regionali: delibere, provvedimenti dirigenziali, ecc. Questo ingenera spesso nel personale addetto ignoranza delle norme e inadempienze che ricadono sui cittadini interessati.

Differenze regionali – È improprio parlare di sistema nazionale per il collocamento, esso varia radicalmente da regione e regione. Disponiamo quindi di un sistema “arlecchino” con risultati a “macchia di leopardo” (troppo spesso sbiadite). Questa situazione è ben conosciuta dalle singole Regioni e dal Ministero del Lavoro, ma non sapendo cosa fare, tutti preferiscono non metterci mano, mentre la situazione si va sempre più deteriorando.

Il personale – L’attuale sistema di collocamento nasce con il Dpcm 469/ 1999, che dal 1° gennaio 2.000 attribuì le competenze alle Regioni e alle Provincie e queste avrebbero dovuto operare in coerenza con il dettato della legge 68. La maggior parte del personale proveniva tuttavia dagli uffici periferici del Ministero del Lavoro (UPLMO), la loro formazione era unicamente di tipo burocratico amministrativo. Il personale si trovò ad operare privo di sufficiente formazione sul tema disabilità/lavoro. Si riproposero quindi vecchi cliché operativi ritornando a focalizzare l’attenzione sulle burocrazie e sul concetto di obbligatorietà per le aziende. Il principio del collocamento mirato, la persona giusta al posto giusto, naufragò miseramente. Del resto non poteva essere altrimenti visto che né il Ministero del lavoro né le Regioni pensarono di formare e aggiornare il personale. Questa situazione si è perpetuata fino ad oggi, visto che i nuovi assunti – ad esempio i Promotori 68 in Lombardia – sono stati formati dai colleghi professionalmente più anziani. Attualmente disponiamo di uffici per il collocamento e non di servizi per il collocamento mirato. Non vi è una presa in carico della persona, la personalizzazione dei percorsi di accompagnamento al lavoro, e nemmeno un sostegno alle aziende nell’adempimento degli obblighi e nell’adozione di buone pratiche, ecc. Un quadro deludente di cui le istituzioni, le parti sociali, gli esperti in materia, hanno scarsa conoscenza diretta; non sanno quello che quotidianamente succede negli uffici provinciali, non conoscono gli impegni né i bisogni del personale dedicato, le difficoltà che le persone disabili incontrano nel cercare un lavoro e gli imprenditori nell’ottemperare agli obblighi di legge. Non capiscono che un collocamento così strutturato non ha un’utilità sociale che giustifichi l’onere economico che comporta. Eppure un servizio per il collocamento pubblico serve, oggi più che mai. Bisognerebbe però decidere un piano di formazione e aggiornamento in modo da uniformarne la cultura, la gestione della legge, e contestualmente avviare un processo di riforma della legge 68/1999, raccogliendo in un unico testo tutte le norme prodotte in venticinque anni. Alla Ministro del Lavoro, Marina Calderone, spetta il compito di avviare un processo di riforma. Sono passati più due anni dalla sua nomina e nulla è cambiato e non vediamo nulla all’orizzonte.

Serve una legge non ideologica ma pragmatica ed efficace, rispettosa dei bisogni delle persone e delle aziende, ed esigente specialmente nei confronti degli enti pubblici che non rispettano gli obblighi. È con questo spirito che nel dicembre 2023 Andel incontrò la Vice Ministro del Lavoro Maria Teresa Bellucci, sollecitandola a farsi promotrice di una iniziativa riformatrice. Anche l’Osservatorio Nazionale sulla Disabilità si è mosso nella stessa direzione. Visto che nulla cambia, sarebbe opportuno promuovere una battaglia di carattere etico nell’interesse non solo delle persone con disabilità, ma per il futuro del nostro Paese.

  1. I dati presentati nell’articolo sono tratti da approfondimenti del Sole 24 Ore pubblicati nel corso del 2024, su fonte Istat e OMS.
  2. La disabilità interessa tuttavia complessivamente oltre cinque milioni di persone (familiari, operatori sanitari, personale scolastico, operatori sociali, ecc.).
  3. Fonte: ricerca valutativa curata da Andel nel 2021.