Dopo venti anni di collocamento disabili


Marino Bottà | 30 Ottobre 2020

Il lavoro quale simbolo

“È l’economia che determina chi è incluso e chi è marginalizzato”1, è sempre l’economia che ha portato il lavoro ad assumere una posizione predominante nelle attività dell’uomo; e il lavoro è stato enfatizzato fino al punto di costituirne l’identità e il ruolo. Il lavoro è sempre più il luogo di incontro, interazione fra individuo e collettività. Il lavoro è la via principale per accedere alla normalità, alla sicurezza, al successo, e al proprio progetto di vita. Il lavoro è occasione di scambio, di esperienze comuni, di condivisione umana, è strumento di confronto con sé stessi e con gli altri, è modo per raggiungere obiettivi e risultati. L’identità personale passa attraverso il ruolo che il singolo ha rispetto alla comunità di appartenenza; la professione e il curriculum lo rappresentano, in una fusione sempre più forte fra essere lavoratore ed essere persona. L’assenza di lavoro, al contrario, aumenta la solitudine e la fatica di vivere, e la sua mancanza è spesso causa di depressione. Il lavoro impone una organizzazione programmata del tempo; offre una ragione per affrontare il nuovo giorno, produce una routine tranquillizzante che, in quanto tale, inibisce l’ansia e quindi produce equilibrio psicofisico.

 

L’inclusione passa attraverso il rapporto fra l’identità personale e il ruolo di reciprocità sociale. Se aumenta  l’integrazione, cresce il ruolo sociale e di conseguenza l’identità personale. Questo processo rafforza l’autostima e quindi la sensazione di benessere.  Il lavoro è il luogo dove l’uomo incontra se stesso; il fare/lavoro è la sua linfa vitale. L’assenza di lavoro toglie tutto questo e produce preoccupazione, frustrazione, angoscia, e disperazione, a cui si accompagna una serie infinita di contraddizioni personali e sociali. Solo un’attività, un lavoro, un tempo impegnato positivamente dal fare può dare benessere psichico e qualità di vita. Il benessere è assicurato dalle condizioni di salute, dal grado di autonomia personale, dall’autosufficienza economica e dall’inclusione socio-lavorativa. Di conseguenza, non avere un lavoro, vuol dire non avere uno status sociale, e riconoscimento dalla comunità di appartenenza, non avere dignità personale rischiando così di togliere significato alla vita stessa. Il disorientamento e l’ansia conseguenti all’assenza di un lavoro si acquietano solo quando si è occupati, quando si appartiene ad un contesto, quando si ritrova la fiducia in sé stessi e una conseguente voglia di vita. “L’uomo nella società moderna coincide con il lavoratore, e l’ intera società è una società di lavoro. Il  disoccupato è un non esistente, e ciò di cui soffre non è l’assenza di lavoro, ma l’assenza di vita”2. Nessun personaggio politico si illuda di trovare altre soluzioni, nella cultura occidentale: un assistito non sarà mai uguale ad un lavoratore, ad un individuo socialmente attivo; e nel prossimo futuro gli Stati riusciranno sempre meno ad affrontare i bisogni dei cittadini senza lavoro.

 

A molti manca un’occupazione non per cause contingenti, e quindi passeggere, ma perché il mondo del lavoro li rifiuta a causa della loro “diversità”. Di conseguenza vivono isolati nel ristretto ambito familiare e si rivolgono in cerca di aiuto a chi ritengono essere competente in materia di mercato del lavoro. Purtroppo i servizi che dovrebbero accompagnare le persone con disabilità, fragili, oltre il confine della disoccupazione, non sono particolarmente preparati, e li abbandonano in ambiti speciali più o meno accoglienti, in ristretti circoli di pari, senza alcuna prospettiva di integrazione. O, peggio, in attesa di un temuto aggravarsi della propria condizione personale. Per la persona disabile il lavoro appare l’unico strumento per uscire dall’isolamento personale e sociale, dall’assistenzialismo a cui troppo spesso è soggetta.

Ecco perché bisogna occuparsi e preoccuparsi del futuro lavorativo dei giovani, ma soprattutto di quelli socialmente più fragili. Purtroppo questa preoccupazione che dovrebbe essere sociale e non solo familiare, non è oggetto di una adeguata attenzione da parte delle Istituzioni, delle associazioni dei disabili e dei sindacati. Ognuno ha le proprie giustificazioni: la classe politica è troppo impegnata ad affrontare altre urgenze, e i servizi dedicati non sono in grado di adeguarsi ai rapidi cambiamenti sociali e di mercato. Lo stesso sistema di collocamento dei disabili non è strutturato per gestire politiche di sostegno all’inserimento lavorativo. Le aziende sono sottoposte a pressanti esigenze di mercato, e di conseguenza a cercare lavoratori disabili sempre più abili; le cooperative sociali sono impegnate nella ricerca di commesse di lavoro e a rispondere ai bisogni di altre categorie di svantaggio. Gli stakeholder principali sono troppo impegnati altrove, e nessuno sembra avere una chiara visione di quello che si dovrebbe e potrebbe fare. Ne consegue un’empasse sociale che, nel prossimo futuro, penalizzerà ulteriormente le persone con disabilità, soprattutto quelle più fragili. In questo modo si rischierà la cronicizzazione dello stato di disoccupazione e un’anestetizzazione del bisogno lavorativo da parte dei disabili, che verrà sostituito da palliativi come i sussidi economici e la socialità attraverso i social.

Seguire il mutamento

Il calo delle rivendicazioni e delle pubbliche proteste sono indicatori di una trasformazione già in atto. Il disoccupato sempre più spesso organizza il suo tempo vuoto attraverso internet e i social; vive in un mondo di relazioni virtuali, perennemente connesso, senza riuscire a sfuggire dalla propria solitudine esistenziale. Una solitudine che fa male, che produce ansia e paura. Una solitudine che si consuma dentro le mura di casa, che troppo spesso si traduce in dramma familiare e spesso conduce al baratro esistenziale. Mentre lo Stato cerca di risolvere il tema del non-lavoro con strategie di controllo sociale e politiche di sostegno assistenziale, nel mondo del lavoro cresce l’uso di impianti e macchinari tecnologicamente evoluti che suppliscono al bisogno del lavoro dell’uomo. Anche l’evoluzione delle mansioni, sempre più complesse, penalizza i soggetti più deboli. Il mondo del lavoro diventa sempre più complicato e a questo si aggiungono l’individualismo e la competitività che si stanno sempre più acutizzando e diffondendo negli ambiti di lavoro.

I bisogni e i valori collettivi  tradizionali stanno perdendo significato; ci stiamo addentrando rapidamente in una società sempre più individualista, dove qualsiasi forma di diversità è apparentemente accettata dalla maggioranza quando però è trasparente o invisibile. Si sta diffondendo un atteggiamento sociale di rimozione e di assuefazione di tutto ciò che turba la quotidiana normalità sociale: la povertà, il disagio sociale, la disabilità, vengono esorcizzate come problemi di altri, su cui non ci si  sofferma. Il protrarsi di questa situazione porterà inevitabilmente verso una regressione della cultura inclusiva e il fallimento delle politiche attive per il lavoro sviluppate negli ultimi decenni. Risultano già riproposti vecchi modelli emarginanti, da tempo superati: ad esempio istituti, scuole, laboratori protetti, reparti speciali, attività economiche riservate, ecc. Alcune iniziative presentate come innovative e pubblicizzate come lodevoli, sono il restyling di ruderi sociali abbandonati da tempo. Queste strutture, progetti, iniziative, nascono spesso da una positiva volontà di supplire le carenze dello Stato, e della società in generale.

È però necessario, se obbligati dalle circostanze, creare una forte integrazione e relazione con gli altri, per evitare così di riproporre contesti speciali ghettizzanti. È quindi utile insistere in modo che tutte le aziende pubbliche e private, siano più ricettive e possano disporre di figure professionalmente preparate ad accogliere i lavoratori disabili fragili.

È inoltre indispensabile curare la diffusione e l’uso di strumenti normativi, contrattuali, economici e buone prassi che possano facilitare l’ingresso e il mantenimento del posto di lavoro. Questo però sarà possibile nel momento in cui si cambieranno le strategie, i servizi e le modalità di azione di chi opera a favore dell’integrazione socio-lavorativa. Il compito non è facile, tuttavia ritengo indispensabile perseguirlo.

Un compleanno passato in sordina

La legge 12 marzo 1999, n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” ha compiuto vent’anni in totale sordina e ne compirà molti altri, nonostante tutto. Una legge considerata all’avanguardia che ha dato una diversa prospettiva al valore dell’inserimento lavorativo dei disabili, che ha introdotto il principio del collocamento mirato3 e dell’assunzione nominativa, che ha creato nuovi uffici e servizi e che ora è, ingiustificatamente, oggetto di critiche nazionali e internazionali. È amaro, dopo venti anni, dover constatare che ci resta lo scontento di essere partiti e mai arrivati.

In un ventennio di distorta applicazione della legge 68/1999, e di sclerotizzazione del sistema del collocamento dei disabili, le aziende hanno continuato ad essere considerate la “controparte”, sconosciuta, isolata, e spesso arroccata e ostile verso la disabilità. Le imprese hanno reagito ricorrendo e rafforzando ogni forma di elusione  e di evasione degli obblighi,  o ricercando  “disabili-abili” da assumere, o alleggerendo  gli oneri  derivanti dal rapporto di lavoro diretto attraverso: esoneri, tempi determinati, part-time ecc. I servizi istituzionalmente preposti, si sono rapportati con le aziende in termini burocratici e impositivi, mentre i servizi sociali e socio sanitari hanno operato in modo scoordinato, ottenendo di conseguenza scarsi risultati e allontanando ulteriormente le aziende.

Quello che più dovrebbe rattristarci è il silenzio che avvolge tutti, chi è a favore e chi è contro  l’attuale sistema di collocamento dei disabili. Ci siamo dimenticati che l’invisibilità sociale e la rimozione intellettuale, passano attraverso il silenzio, anticamera del privato e poi dell’individualismo. Per queste ragioni il cittadino portatore del bisogno, la famiglia, e i soggetti sociali interessati, non devono tacere e attendere passivamente soluzioni calate dall’alto, che non arriveranno.

Rovesciare la prospettiva e cambiare rotta

Le contraddizioni che soffocano il sistema del collocamento disabili,  potrebbero essere risolte senza oneri aggiuntivi, sconvolgimenti normativi e organizzativi: basterebbe cambiare le modalità di approccio ai vari problemi che si presentano. Prima di tutto bisognerebbe rivedere il rapporto con le aziende, considerarle come protagoniste dell’inclusione lavorativa, e quindi comprenderne i bisogni, i problemi, e le difficoltà. Ogni azienda ha una sua storia, un’esperienza, un carattere che la rendono unica e, come per le persone, solo il rapporto diretto e l’uso di un linguaggio comprensibile possono aprirle all’inclusione4. Comprendere i bisogni delle imprese per poter dare una risposta ai bisogni occupazionali delle persone disabili. Questo è possibile e già sperimentato con successo; non necessitano nuove leggi o ulteriori risorse economiche; serve unicamente un diverso approccio culturale e servizi in grado di interpretarlo.

 

La crisi economica, la rivoluzione tecnologica, i cambiamenti sociali, e il mutare dei rapporti fra i vari soggetti coinvolti, imprenditori, lavoratori, e sindacati, impongono al mercato del lavoro un continuo adeguamento. Oggi sono richieste figure professionali nuove, e tutti i lavoratori devono essere  in possesso di competenze tecniche, flessibilità, resistenza allo stress, capacità di problem solving, ecc. Novità che non dovrebbero essere né temute né subite, ma potrebbero essere assorbite positivamente attraverso la ripresa del concetto di “collocamento mirato” e il capovolgimento del tradizionale paradigma delle azioni di scouting5: “Non più dal disabile all’azienda, ma dall’azienda al disabile”. Fino a quando i servizi di  collocamento non verificheranno le innovazioni e i bisogni delle imprese; avremo due mondi paralleli che continueranno a non capirsi, Ministero del Lavoro e Regioni che continueranno a produrre politiche occupazionali inadeguate, operando a prescindere dal contesto socio-economico che ci circonda. E’ pertanto improbabile attendere dei cambiamenti da chi è disattento e sempre impegnato su altri fronti. E’ anche impensabile aspettare spinte innovative dalle periferie dello Stato, in quanto i vari operatori, funzionari, dirigenti locali, cercano di conservare e perpetuare lo status quo, come viatico del loro quieto vivere e delle loro carriere. Anche i nuovi ingressi sono assorbiti attraverso la formazione, affidata a chi può garantire la continuità attraverso una spiegazione del nuovo con il vecchio. Il plagio conservativo della tradizione e degli usi e costumi locali, è l’unica sicurezza per il loro futuro.

Anche il concetto di collocamento mirato necessita di una rivisitazione. È ora di chiedersi come sia possibile parlare di collocamento mirato e di trasformare la presenza del lavoratore disabile da obbligo in opportunità, se i servizi preposti si ostinano a non voler conoscere le aziende? Un positivo rapporto con l’Altro non può prescindere dalla sua conoscenza e dalla comprensione dei suoi bisogni. Com’è possibile collocare la persona giusta al posto giusto, se si conosce solo il lavoratore (a volte nemmeno quello) e non l’ambiente che lo deve ospitare,  la mansione che deve svolgere, gli strumenti che deve utilizzare, i colleghi con cui deve rapportarsi? Alla base del collocamento mirato c’è un rapporto di reciproca conoscenza, di fiducia, e di soluzioni condivise. Il progetto personalizzato di inserimento lavorativo si concretizza positivamente solo nel momento in cui è condiviso dalla persona disabile e dall’azienda. Tutto il resto è tempo perso! Pura mistificazione!

L’idea che le imprese siano poco sensibili al tema dell’inserimento al lavoro delle persone disabili, è una convinzione ampiamente diffusa nel mondo della disabilità, ma questa constatazione seppur giusta è totalmente improduttiva, in quanto non ha prodotto e non produce nessun cambiamento in meglio. Siamo in una posizione di stallo perenne che nulla ha a che vedere con lo spirito della legge. La legge 68/1999 si proponeva di far incontrare due mondi apparentemente contrapposti, divisi da interessi antitetici; ma il sistema del collocamento disabili ha deciso di schierarsi a priori dalla parte del disabile, contrapponendosi alle aziende. Non le ha ascoltate, non le ha sostenute nell’adempimento dei loro doveri; si è rivolto a loro come un goffo gendarme, incapace ad evitare le evasioni, e ottenendo miseri risultati occupazionali. Questo modo di agire non ha funzionato.  Per due decenni il Collocamento Disabili e i servizi territoriali che lo hanno affiancato, non sono stati all’altezza della legge e delle novità normative introdotte e si sono dimostrati inadatti a svolgere  la mission di collocatori di disabili.

 

L’affermarsi dell’approccio basato sulla centralità dell’azienda, nel processo di inserimento e di mantenimento del lavoro delle persone con disabilità, è invece il presupposto per poter conseguire risultati soddisfacenti e costruire in futuro un adeguato ed efficace collocamento. I sistemi di gestione del welfare locale progettano solitamente, programmano e coordinano qualsiasi azione dai loro uffici. L’antitesi di come dovrebbe agire un servizio efficace. Ecco perché ritengo indispensabile, ma altrettanto improbabile, un cambiamento culturale e organizzativo del sistema del collocamento disabili, e una modifica dei modi con cui i servizi si rivolgono alle aziende e gestiscono alcuni istituti fondamentali della legge 68/1999. Temo che queste contraddizioni si inaspriranno con il prolungarsi ormai endemico della crisi economica; mentre le responsabilità di ogni futuro fallimento continueranno ad essere scaricate sulle aziende e sulla legge, attraverso una strumentale lettura di dati raccolti male e in smisurato ritardo. Il sistema del collocamento affermerà l’utilità e l’indispensabilità della sua presenza, avremo così un lungo periodo in cui verranno maggiormente penalizzate le persone con disabilità complesse. Il così detto “mondo del sociale” non pensi però di autoassolversi girando la testa altrove o restando in attesa, come sta facendo da troppo tempo.

  1. James  Hillman (1996), Forme del potere. Capire il potere per usarlo in maniera intelligente, Garzanti.
  2. Umberto Galimberti (2009, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano.
  3. Si veda l’articolo di Nicola Orlando “Politiche per l’integrazione lavorativa: il punto della situazione e le prospettive in Italia”, pubblicato su questo sito.
  4. Si veda l’articolo dell’autore “Gli stakeholder nel campo della disabilità”, pubblicato su questo sito
  5. Il termine scouting è utilizzato per indicare le azioni di ricerca di posti di lavoro.

Commenti

Infatti mi sono chiesta più volte a cosa serve essere iscritti al collocamento mirato, se in sette anni mio figlio che ormai ha 37 anni, ha potuto fare solo e saltuariamente dei tirocini per 200,00 Euro al mese, e per tramite l’USL, inoltre preciso che questo tipo di lavoro non dà diritto a NULLA, in quanto i contributi non vengono versati. Rivolgermi al collocamento è stato solo tempo perso.

Per me è necessario creare una rete di genitori con figli disabili, e mettere a punto una proposta che nasce dalle nostre esperienze per rivendicarle ai livelli di Comune Provincia Regione e Governo affinché prendano forma . Andare alla ricerca di esperienze positive già realizzate altrove, in Italia e all’estero . Partiamo dalla critica ai tirocini brevi e inutili che non producono un reale apprendimento,
spendibile poi nel mercato del lavoro. Io sento la necessità di unirmi ad altri per sentirmi più forte e incisivo nel realizzare le nostre proposte che sicuramente saranno più efficaci di quelle ormai solo burocratizzate dei Centri per L’impiego. Chi condivide l’idea faccia un segnale .
Io sono a Milano

Condivido in pieno l’articolo. Non c’è comunicazione tra istituzioni e imprese e men che meno con gli uffici che dovrebbero collocare i disabili. Tutto questo genera frustrazione in chi cerca lavoro e difficilmente si riuscirà a trovare una via d’uscita.