È giunta l’ora del tramonto dello scopo non lucrativo?


Alceste Santuari | 13 Luglio 2023

Nel 1973, il prof. Gerardo Santini pubblicò un articolo dal titolo “Il tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali” (Riv. dir.   civ., 1973, I, p. 151 ss.). Nell’articolo, che avrebbe influenzato tutto dibattito dei decenni successivi sul tema, il noto giurista sosteneva che “nel moderno sviluppo economico-sociale lo scopo di lucro è venuto affievolendosi come elemento caratterizzante la società, fino a consentire la presenza societaria anche quando il lucro non solo concretamente, ma anche astrattamente, viene dalle parti considerato come meramente eventuale oppure del tutto escluso, nella sostanza  finanche[…] nella forma, con apposita clausola statutaria” (p. 155).

Qualche giorno fa, intervenendo al Festival dell’Economia di Trento, Monsignor Nunzio Galantino, Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, ha dichiarato che “i tempi sono maturi per liquidare una volta per tutte la dicotomia, tra profit e non profit” (Il Sole 24 Ore, domenica 28 maggio 2023, p. 2).

Parafrasando Santini, possiamo dire di trovarci di fronte al “tramonto dello scopo non lucrativo” quale caratteristica ontologica delle organizzazioni di terzo settore? Conseguentemente, assisteremo ad una forma di progressiva neutralizzazione delle forme giuridiche, mutuando in questo senso il sistema nordamericano, nel quale, è noto, che una forma (corporation) si distingue per l’inserimento in statuto della clausola relativa al “non distribution constraint”?

La neutralizzazione delle forme giuridiche in parola e, pertanto, lo scoloramento del vincolo alla non distribuzione degli utili devono essere collocati in una dimensione e contesto, rafforzati dalla Riforma del Terzo settore, in cui ciò che rileva è la finalità di interesse generale dell’attività svolta, nei confronti della quale i profili gestionali ed organizzativi degli enti risultano cedevoli. In altri termini, avuto riguardo alle finalità di carattere collettivo che le singole organizzazioni sono chiamate a realizzare, la circostanza che esse non prevedano quale elemento definitorio la non distribuzione degli utili maturati non rappresenterebbe un impedimento.

Per vero, se si considera lo “scopo lucrativo” quale elemento ontologico dell’”agire non profit”, si può sostenere che esso è stato progressivamente sostituito dal perseguimento di finalità di interesse generale, cui sia la legislazione europea sia quella nazionale si sono conformate. Da ciò consegue che la non lucratività ha assunto nel tempo una connotazione dell’attività svolta e non più la “ragione” ultima della medesima, la quale, invece, è definitoria dell’azione degli enti del terzo settore. In questo senso, si collocano le previsioni del Codice del Terzo settore che legittimano la presenza di una seppur limitata possibilità di distribuire gli utili conseguiti nelle imprese sociali. In queste ultime, altri caratteri organizzativi, quali la governance democratica e la valorizzazione/coinvolgimento dei diversi portatori di interesse, sembrano assurgere ad elementi maggiormente rilevanti rispetto al vincolo (classico) della non distribuzione degli utili.

La rilevanza collettiva dell’azione delle organizzazioni è poi ribadita nel caso delle società c.d. “benefit”, le quali, pur mantenendo intatti tutti gli elementi delle società di capitali, ivi compresa la distribuzione degli utili, devono inserire nei propri statuti specifiche clausole che prevedano il beneficio comunitario che le medesime società decidono di apportare nello svolgimento della propria attività. La sostenibilità ambientale, la responsabilità sociale d’impresa, unitamente al sostegno finanziario di progetti sociali espressione del territorio di riferimento dell’azione imprenditoriale costituiscono il nuovo perimetro in cui si valuta l’impatto sociale dell’attività delle società di capitali.

Che cosa si può evincere dal quadro sintetico sopra ricostruito? In primo luogo, emerge l’esigenza da parte del legislatore di “immettere” nel sistema della solidarietà sociale nuovi paradigmi giuridico-organizzativi, affinché si allarghi la platea delle forme organizzative disposte a collaborare alla definizione di azioni, interventi e progetti a vocazione sociale. In secondo luogo, le organizzazioni non profit, che, a seguito della riforma del Terzo settore, possono finanche svolgere attività economico-imprenditoriale in forma prevalente, sono sempre più definite dalle finalità perseguite anziché dall’attività svolta, come avveniva in passato. In terzo luogo, il vincolo alla non distribuzione degli utili può rimanere il carattere distintivo di alcune tipologie di organizzazioni non lucrative, segnatamente, le organizzazioni di volontariato e di promozione sociale, le quali sono invero caratterizzate dal prevalente apporto volontario dei propri aderenti.

Siamo dunque di fronte ad un cambio di paradigma giuridico rispetto a quanto siamo stati fino ad oggi abituati? Il vincolo alla non distribuzione degli utili è stato soppiantato da altri requisiti formali, utili e funzionali ad individuare una nuova fattispecie giuridico-organizzativa? Le finalità sociali e solidaristiche sono per se sufficienti ad individuare una nuova categoria di organizzazioni “a vocazione SDGs”? In una dimensione di “vocazione sociale” delle singole realtà organizzative ed imprenditoriali, il vincolo alla non distribuzione dei profitti è ancora in grado di assolvere alla funzione reputazionale e di sviluppo delle organizzazioni che ne sono definite?

Chi scrive non concorda con l’affermazione riportata in apertura di questo contributo, secondo cui la differenza tra non profit e for profit debba considerarsi ideologica e, quindi, da superare. Si ritiene, infatti, che il vincolo alla distribuzione degli utili debba rimanere caratteristica definitoria e identitaria, se non di tutte, almeno di alcune realtà non lucrative. Esso contribuisce ad incrementare la fiducia, la reputazione, l’affidabilità e quindi l’accountability nei confronti della comunità, dei potenziali donatori, dei propri membri e degli altri portatori di interesse.

Tuttavia, è innegabile che una riflessione vada avviata intorno alla capacità del medesimo vincolo di identificare il perimetro dell’azione dell’agire non profit, in particolare, avuto riguardo al fatto che altri attori, mutualistici e non, societari e non, non sono caratterizzati dallo stringente vincolo in parola. Questi ultimi sono identificabili con la loro capacità di arrecare un beneficio alla comunità di riferimento, sia in termini di risposta ai bisogni collettivi sia, spesso, in termini di processi innovativi (impatto sociale).

Da quanto sopra delineato consegue che il vincolo alla non distribuzione degli utili non assurge più al profilo identificativo e definitorio di molte organizzazioni impegnate nella realizzazione di finalità sociali, ma ne costituisce, laddove presente, soltanto uno degli elementi della fattispecie.

Una nota finale: risulta di tutta evidenza che la traiettoria evolutiva sopra indicata apra nuovi scenari anche in ordine alle procedure utilizzate dagli enti pubblici per coinvolgere i diversi soggetti privati. Ma questo è un tema che verrà affrontato in un altro contributo.


Commenti

Interessantissimo contributo in linea con la certificazione ESG ed ancor più con il “rimescolamento delle carte” che il Prof. Galgano negli anni ’60 del secolo scorso fece nel Commentario Scialoja Branca in tema di Associazioni riconosciute e non assimilandone, la disciplina normativa, in quanto compatibile alle Società ex V libro del cod. civ. Ragionamento che ha trovato pieno compimento con la riforma del 1° gennaio 2004 che addirittura regolamenta la trasformazione diretta di una Associazione ex I libro del cod. civ. in una lucrativa ex V libro.

Concordo molto con il tono di questo articolo. Per vedere se ho ben compreso, io la direi così: se la distinzione profit/nonprofit viene intesa come una pura dicotomia da superare per rendere tendenzialmente uguali tutte le organizzazioni, l’affermazione di mons. Galatino non può essere condivisa; se, invece, essa intende essere la premessa per un’articolazione più ampia e pluralista delle diverse forme organizzative, è da condividere.