Il perimetro delle WISE


Questo articolo è frutto del lavoro di ricerca svolto da Gianfranco Marocchi per incarico del Consorzio Nazionale Idee in Rete e da Giulia Galera e Giulia Tallarini per incarico di Euricse nell’ambito del progetto Europeo B-WISE. Il report completo è disponibile a questo indirizzo. È stato inoltre pubblicato in lingua italiana e con adattamenti al contesto nazionale in questi due articoli (12) sulla rivista Impresa Sociale, che tratta in modo più ampio i temi qui sinteticamente proposti.

 

Il tema dell’inclusione di lavoratori svantaggiati ha trovato risposta, oltre che nelle politiche esaminate in questo articolo, nella nascita di specifiche organizzazioni, generalmente indicate come Work Integration Social Enterprises (WISEs), Imprese Sociali di Integrazione Lavorativa, che si sono diffuse nel continente (e nel nostro paese in particolare) a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Nel nostro paese le WISE hanno assunto in grande maggioranza la forma di cooperative sociali di inserimento lavorativo (o “di tipo B”, facendo riferimento alla denominazione introdotta dall’art. 1 della legge 381/1991). Da fenomeno di nicchia, le WISE sono progressivamente diventate una efficace strategia di sostegno all’occupazione, riconosciuta anche a livello europeo (Commissione europea, 2022). Ciò detto, , individuare in modo nitido il perimetro di questo fenomeno a livello europeo pone alcuni problemi, dovendosi confrontare con elementi di complessità su più fronti:

  • estrema varietà delle forme giuridiche, in accordo con le tradizioni nazionali, con conseguente difficoltà, da parte di chi proviene da altri Paesi, di comprendere l’effettiva natura dei diversi soggetti identificati – ex lege o di fatto – come WISE;
  • differenti gradi di riconoscimento delle WISE, che in alcuni Paesi possono non essere riconosciute come tali da un punto di vista giuridico, dalle misure policy o dalle stesse organizzazioni che presentano le caratteristiche delle WISE o possono sottostare a vincoli molto diversi dal punto di vista dei lavoratori riconosciuti come svantaggiati, della disciplina dell’utile, ecc.;
  • differente attenzione da parte delle politiche, che possono essere sensibili o meno al fenomeno dell’esclusione dal mercato del lavoro e, laddove lo siano, possono agire con strategie molto diverse;
  • estrema varietà nel modo di operare, che dà luogo a modelli operativi diversi, di seguito approfonditi.

A fronte di ciò, è necessario individuare una strategia per delimitare il perimetro delle WISE sufficientemente resistente rispetto all’eterogeneità sopra evidenziata e che sia al tempo stesso sufficientemente:

  • inclusiva, e quindi non perimetri le WISE sulla base di criteri rilevanti in un certo contesto nazionale – come spesso accade, quello dell’autore che propone la perimetrazione – disorientando invece chi osservi il fenomeno da contesti culturali e normativi diversi;
  • selettiva, e quindi identifichi un fenomeno ben definito e specifico, non cadendo nell’errore di ricomprendere nel perimetro chiunque a vario titolo si occupi di facilitare l’accesso al lavoro di persone svantaggiate, cosa che renderebbe il concetto di WISE indeterminato e in ultima analisi poco utile.

Pur essendo consapevoli del carattere provvisorio di questa definizione, si propone di considerare WISE organizzazioni:

  1. che svolgono una o più attività produttive (es. un ristorante, un’attività artigianale, un servizio di pulizia o di manutenzione del verde, un negozio, ecc.) specificamente finalizzate ad offrire, in coerenza con la propria mission statutaria, un’opportunità di lavoro a persone svantaggiate ed a favorire la loro integrazione sociale e il rafforzamento delle loro competenze;
  2. in cui la vendita dei beni e servizi prodotti (nel senso indicato al punto precedente, e non quindi le forme di remunerazione dell’inserimento lavorativo in quanto tale) produce una quota significativa delle risorse necessarie alla sopravvivenza dell’organizzazione; come regola generale, sarebbe opportuno che tale quota fosse superiore al 50%;
  3. dove la maggior parte dei lavoratori svantaggiati è assunta a libro paga e retribuita secondo contratti collettivi (e non, quindi, inquadrata come tirocinante, utente, o comunque come persona che per diversi motivi opera gratuitamente o con retribuzione simbolica) e, in base alle loro condizioni di salute, lavora un numero di ore tale da raggiungere almeno una parziale autonomia economica.

Rispetto ai due criteri enunciati per argomentare la validità della definizione, l’aspetto dell’inclusività appare soddisfatto in quanto:

  • i tre punti prima elencati non fanno riferimento a specifiche forme giuridiche;
  • non viene citato, tra l’altro, – in ciò adeguandosi anche agli autorevoli orientamenti assunti da Euricse e Emes nello Studio di mappatura dell’impresa sociale del 2020 – alcun vincolo relativo alla disciplina dell’utile che, stante le diverse forme giuridiche, avrebbe potuto nei fatti rappresentare un elemento di chiusura non auspicabile, ritenendo sufficiente quanto indicato sopra al punto 1 e cioè l’esplicita finalizzazione all’inserimento lavorativo quale obiettivo prioritario (che porta con sé il fatto che diventi secondario o assente l’obiettivo di soddisfare l’azionista con il dividendo o con un incremento patrimoniale in futuro fruibile).

L’aspetto della selettività è al tempo stesso molto marcato, come si evidenzia nella successiva tabella.

Criterio Cosa esclude

Svolgere, coerentemente con la propria mission istituzionale, attività produttiva esplicitamente finalizzata all’inserimento lavorativo e alla crescita umana e professionale del lavoratore svantaggiato.

  • Tutti i soggetti che, pur facilitando in vari modi l’inserimento dei lavoratori svantaggiati, non svolgono attività produttiva (ad esempio enti di formazione o agenzie di intermediazione, ancorché con una specifica vocazione sociale)
  • Imprese che, a fronte di una generica responsabilità sociale, inseriscono occasionalmente persone svantaggiate ma non hanno ciò come finalizzazione principale e/o non prevedono azioni specifiche per la crescita umana e professionale dei lavoratori svantaggiati ma la loro mera occupazione.

La maggior parte del fatturato deriva dalla vendita di beni e servizi prodotti (non da remunerazione delle funzioni formative o sociali).

  • Laboratori protetti e/o attività di ergoterapia, che derivano il fatturato principale da remunerazioni connesse all’ospitare persone svantaggiate e non dalla vendita dei beni e servizi che queste contribuiscono a produrre; e/o che offrono a tali persone remunerazioni simboliche o inquadramenti non lavorativi (es. tirocinanti);
  • Enti di formazione professionale anche se con una vocazione specifica rivolta a lavoratori svantaggiati, che quindi offrono attività formative a tali persone, ma – salvo casi straordinari – non le assumono a libro paga e non le impegnano in attività produttive;
  • Enti che operano nel placement, nell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, anche se con una vocazione specifica rivolta a lavoratori svantaggiati, il cui scopo è quindi quello di analizzare le competenze dei lavoratori e di avviarli verso imprese terze, eventualmente facendo leva anche su normative ad esempio relative agli obblighi di assunzione di persone con disabilità.

La maggior parte delle persone svantaggiate sono lavoratori assunti e remunerati con regolari contratti di lavoro (non tirocinanti o persone con remunerazioni simboliche).

Va per completezza evidenziato che i criteri sopra richiamati possono essere utilizzati in modo più o meno restrittivo, secondo le scelte del ricercatore. Ad esempio, rispetto alla prevalenza del fatturato derivante dalla vendita di beni e servizi (con ciò intendendo attività artigianali, pulizie, manutenzione del verde, gestione di cimiteri, servizi ambientali, ecc., ma non i proventi della formazione, le convenzioni di ergoterapia e ogni altro ricavo relativo a servizi di welfare offerti alle persone svantaggiate) troviamo in Europa situazioni tra loro molto diverse. Se in alcuni casi è chiaro che si fuoriesce dal perimetro WISE (con riferimento alla ricerca svolta nell’ambito di B-WISE, i case study hanno rilevato taluni enti in Polonia ove il 90% dei proventi deriva da convenzioni che remunerano la presa in carico delle persone inserite e solo il 10% dalla vendita di beni e servizi), in altri casi – se ne sono riscontrati in Spagna, Austria, Belgio e Olanda – ci si trova di fronte ad imprese che fatturano diversi milioni di euro per la vendita di beni e servizi, investono cifre consistenti in macchinari avanzati e in strategie di marketing, impiegano centinaia di lavoratori svantaggiati, ma che percepiscono quote di fatturato intorno al 50% dal riconoscimento del lavoro sociale e formativo svolto; in questi casi si può ragionevolmente sostenere sia la loro inclusione, sia la loro esclusione dal perimetro WISE, sulla base delle finalità che l’indagine si pone. Ma tali aree grigie non inficiano la pregnanza dei criteri adottati, rappresentando invece normali aspetti di complessità da affrontare laddove si passi dalla teoria alla analisi empirica di fenomeni articolati che si collocano, come già evidenziato, in contesti giuridici e di policy tra loro molto diversi.

Ciò detto, è bene rimarcare come la perimetrazione qui proposta abbia scopi analitici e conoscitivi e non vada intesa come implicitamente valutativa rispetto ai fenomeni studiati. Essere WISE non è una sorta di “titolo di merito” rispetto a chi non lo è, e non si sviluppano in questa sede valutazioni comparative rispetto alla relativa maggiore auspicabilità di intervenire nelle politiche pubbliche a favore delle WISE, dell’ergoterapia, della formazione professionale, del placement o di altre azioni che riguardino a vario titolo l’integrazione lavorativa delle persone svantaggiate. Ciò va sottolineato perché emerge con molta evidenza – ciò è accaduto anche nell’ambito del progetto europeo B-WISE che ha dato origine a questo lavoro – una tendenza ad invadere i ragionamenti analitici con elementi valutativi, che portano i protagonisti a “rivendicare” a tutti i costi la propria appartenenza al perimetro WISE, anche quando si è in presenza di fenomeni oggettivamente diversi e anche a costo di forzare oltre misura a tal fine i criteri sopra richiamati. L’essere una WISE si associa, nella mente di chi si occupa di integrazione lavorativa, all’essere produttivi (positivo) anziché assistenziali (negativo), a costruire percorsi di autonomia (positivo) anziché di dipendenza dai servizi (negativo) e così via.

Tutto ciò è frutto dell’indubbio successo del modello WISE in Europa, che esercita talvolta una forza attrattiva verso tutti coloro che, a vario titolo, operano per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Le caratteristiche di autonomia e imprenditorialità costituiscono indubbiamente una peculiarità dirompente rispetto all’universo delle altre politiche per l’integrazione lavorativa, anche se questo non rende auspicabile la forzatura delle categorie analitiche, né a liquidare frettolosamente strumenti diversi, che possono comunque rivestire una propria funzione nell’ambito dell’estrema varietà dei bisogni legati all’integrazione lavorativa.