La povertà delle persone senza dimora: nuovi scenari e questioni aperte


Antonella Meo | 10 Settembre 2023

Siamo soliti pensare alle persone senza dimora come espressione di una delle forme più gravi di povertà e marginalità: sperimentano condizioni materiali tanto precarie da soddisfare con fatica i problemi quotidiani dell’esistenza, non godono di un’adeguata rete di sostegno e sono prive delle risorse necessarie per disporre di un’abitazione. Sono così estreme le condizioni di vita di questi individui che tendiamo a rappresentarli come “altro” da noi, una fattispecie a sé, isolandoli dal resto della popolazione. Li pensiamo ai margini della società e tendiamo a percepire il loro disagio come un problema personale. Persiste tuttora una rappresentazione fuorviante che riconduce la condizione di chi vive in strada, trova ospitalità nei dormitori o rifugio in sistemazioni inadeguate, a deficit culturali, mancanza di capacità o di volontà, o alla cattiva sorte che colpisce chi nella vita è particolarmente sfortunato. L’immagine associata è quella di uno stato di cronicità e di estremo degrado che non offre vie di uscita.

Nel dibattito pubblico, che contribuisce ad alimentare e veicolare questo tipo di rappresentazione, la questione viene declinata spesso come un problema di ordine pubblico o di decoro urbano. Si tratta di un approccio in linea con una lunga tradizione di intervento improntata a una logica assistenziale, regolativa ed emergenziale, che ha relegato le persone socialmente marginali ai dormitori e ad altre strutture di accoglienza temporanea, escludendole di fatto dalle politiche abitative sociali e riservando loro soluzioni “ad hoc” (Tosi 2017).

Sappiamo bene che le rappresentazioni della realtà non si limitano a descrivere i fenomeni ma contribuiscono a dar loro forma, influenzando le percezioni collettive e persino suggerendo opzioni di intervento: offrono interpretazioni semplificate, suggeriscono e legittimano soluzioni. È dunque interessante provare a mettere alla prova tali rappresentazioni, evidenziandone parzialità e limiti, e al tempo stesso ad aggiornare la nostra conoscenza del fenomeno, delle sue forme e dinamiche. È tempo di un cambio di prospettiva: ricerche recenti (es. Consoli e Meo 2020) documentano nel nostro Paese l’eterogeneità in crescita della popolazione senza dimora, le molteplici configurazioni che disagio abitativo e povertà vanno assumendo, e la complessità dei nessi tra fattori sociali e condizioni individuali. Si tratta di evidenze importanti che smentiscono l’immaginario di cui abbiamo detto.

Contrariamente all’opinione diffusa, le persone senza dimora, come del resto gli altri poveri (Alcock e Siza 2003; Nolan e Whelan 2011), non costituiscono una categoria omogenea per traiettorie di vita, situazioni familiari, risorse professionali e di capitale sociale, tempi di permanenza in povertà. I loro profili risultano molto differenziati, difficilmente riconducibili a delle tipologie (Consoli e Meo 2020). Negli ultimi anni accanto a individui in condizioni di forte deprivazione ed estremo disagio si affacciano ai servizi e alle strutture di accoglienza per senza dimora anche soggetti “vulnerabili” che vivono una precarietà esistenziale per l’indebolimento dei principali canali di integrazione sociale e lavorativa: persone che non presentano i tratti di multi-problematicità che caratterizzano l’utenza tradizionale, non appartengono all’area della grave emarginazione né sembrano manifestare forme di cronicità e di dipendenza dal circuito assistenziale. Le ricerche rilevano sempre più i contorni di esistenze non del tutto sganciate dal mercato del lavoro e dal tessuto sociale (es. Licursi et al. 2020). Si tratta di tratti inediti, di cui però le rilevazioni Istat del 2011 e 2014 avevano già colto primi segnali.

Dai primi anni Duemila sembra acquisire maggiore rilevanza la connotazione familiare della condizione di senza dimora, cresce la componente femminile, ragazzi giovani si rivolgono ai dormitori (Zenarolla 2020). Nel caso dei migranti, l’arrivo ai centri di accoglienza per senza dimora è spesso la conseguenza di politiche migratorie inadeguate, di una loro integrazione subalterna nel mercato del lavoro o di discriminazione istituzionale. Donne che hanno perso il lavoro come badanti, giovani in uscita da strutture dedicate come gli Sprar rappresentano alcuni dei profili emergenti.

Si tratta di segnali importanti che danno conto di una crescente differenziazione interna alla popolazione senza dimora e che sollecitano non solo a cogliere la pluralità delle condizioni che sono all’origine della povertà, ma anche a restituire complessità al fenomeno, mettendolo maggiormente a fuoco come esito di processi sociali e dinamiche strutturali che hanno investito anche il nostro Paese negli ultimi decenni. Nella letteratura internazionale sul tema l’attenzione ricade sulle conseguenze dei processi di deregolamentazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro in termini di precarietà lavorativa, discontinuità e inadeguatezza delle retribuzioni, scarse tutele: l’espressione in-work homelessness ne dà conto (Jones et al. 2020). Altri contributi evidenziano, ormai da tempo, il ruolo del fattore abitativo nella concatenazione di fattori che possono portare all’homelessness. Nel nostro Paese non ha ancora trovato sufficiente eco il dibattito sviluppatosi nel contesto europeo sulla differenziazione delle forme di disagio abitativo emerse negli ultimi anni, sulla maggiore articolazione interna riscontrata anche nell’area della povertà abitativa con l’estensione del rischio e la comparsa di nuove figure di portatori di bisogno abitativo (Baptista e Marlier 2019). Tale attenzione è legata a una maggiore consapevolezza dei limiti delle politiche abitative convenzionali, dell’inadeguatezza delle misure tradizionali adottate nei confronti degli homeless, della crescente esposizione al grave disagio abitativo di gruppi e categorie sociali in passato ritenute estranee al disagio sociale1.

Le considerazioni svolte finora motivano l’esigenza di superare una lettura della condizione di senza dimora come attributo personale, lettura che finisce per avvalorare l’idea che il campo della povertà estrema possa essere ritagliato e separato dai più ampi processi sociali che producono la povertà. È dunque importante affinare le chiavi interpretative con cui siamo soliti intendere l’homelessness in Italia, sottolineando ancora una volta che gli individui in questione costituiscono un insieme eterogeneo nel quale si riscontrano situazioni molto variegate, la cui incidenza muta in relazione a fenomeni più ampi che investono la società, quali i processi di precarizzazione sociale, frammentazione del sistema di protezione sociale e fragilizzazione della cittadinanza, le migrazioni, la globalizzazione. Si tratta, in altre parole, di contestualizzare le caratteristiche che il fenomeno va assumendo nell’ambito dei cambiamenti economici e sociali che hanno origine e si manifestano con la crisi del capitalismo organizzato, la transizione al capitalismo flessibile e finanziario, connettendo povertà e impoverimento alle crescenti disuguaglianze sociali.

L’eterogenea composizione della popolazione homeless, le differenze che la strutturano, la sua latenza e visibilità intermittente, la durata temporale variabile, rendono di fatto impossibile individuare un’unica causa e spingono a considerare nella loro interdipendenza fattori personali e fattori strutturali più generali.

Due temi ulteriori sono da segnalare. Se i rischi di povertà non sono univoci né lo sono le caratteristiche delle persone coinvolte, oggi più che in passato anche la povertà estrema non è sempre e necessariamente, come si era abituati a pensare, l’esito dell’esclusione sociale. Piuttosto essa sembra configurarsi come un orizzonte di rischio a cui è esposta una fascia in aumento di popolazione in condizioni di fragilità. La questione è degna di nota. Fino agli anni Novanta, infatti, il concetto di esclusione sociale ben si prestava a interpretare la deprivazione materiale dei senza dimora come il risultato finale di processi di grave emarginazione (désaffiliation à la Castel) nei quali le possibilità di partecipare alla vita sociale finiscono per deteriorarsi fino a essere compromesse. In tempi più recenti, invece, l’attenzione dei ricercatori ricade anche sui processi di infragilimento che colpiscono chi è incluso e che traggono le loro radici da come si sta dentro la società, non dal fatto di esserne fuori e di non potervi partecipare. Le problematiche a cui si è accennato, per esempio quelle relative all’instabilità lavorativa o al disagio abitativo, non sembrano mettere immediatamente a repentaglio l’inclusione sociale di individui e nuclei familiari, quanto piuttosto avere a che fare con la robustezza della loro inclusione sociale.

Va ricordato che quella di senza dimora non è una condizione statica, bensì presenta tratti di processualità. Il tempo di permanenza in povertà (estrema) costituisce un fattore aggravante: la “vita di strada”, per le condizioni estreme in cui si svolge, tende a strutturarsi nel tempo come uno stato di malessere sempre più grave, un percorso di vita regressivo: deteriora progressivamente – naturalmente non in modo deterministico – le capacità di sopravvivenza e di autonomia dei soggetti, rendendoli sempre più vulnerabili (Meo 2000). Due ordini di considerazioni si impongono: l’esigenza di intercettare precocemente il disagio, frenando la dinamica di impoverimento fino alle forme estreme di deprivazione, e di connettere il contrasto all’homelessness con la sua prevenzione, integrando le politiche di lotta alla povertà nell’insieme delle politiche sociali. Al tempo stesso occorre riflettere sul fatto che spesso per essere sostenuti e presi in carico dai servizi è necessario essere già molto compromessi.

In secondo luogo, se siamo abituati ad assumere che la condizione di senza dimora sia permanente, ovvero cronica, la letteratura internazionale documenta che non lo è necessariamente, spesso è temporanea. Come la povertà, anche l’homelessness è e può essere un fenomeno non visibile nelle sue forme transitorie perché non rilevato. Poiché la nostra conoscenza del fenomeno è strettamente legata a quello specifico punto di osservazione che è rappresentato dai servizi per senza dimora, la nostra attenzione (di policymaker, operatori sociali, volontari, ricercatori) ricade sulle figure estreme dell’esclusione abitativa, quelle più compromesse dalla vita di strada, che appunto siamo soliti associare alla deriva sociale e alla cronicità. I servizi per senza dimora intercettano, infatti, soggetti che ne fanno un uso sempre più differenziato, ma che rappresentano solo una parte della popolazione homeless, quella che probabilmente sperimenta il disagio in forme più gravi e manifeste. La scarsa presenza e visibilità delle donne ne è un esempio. Si tratta di quella “cecità metodologica” su cui richiama l’attenzione Consoli (Consoli e Meo 2020).

Pertanto allargare la prospettiva di analisi, come è auspicabile per meglio comprendere le dinamiche che l’homelessness va assumendo anche in Italia, comporta ad esempio andare oltre l’analisi delle forme di deprivazione abitativa estrema per mettere a tema non solo l’estendersi dell’area del disagio o del rischio abitativo, ma anche i nuovi intrecci tra disagio abitativo e disagio sociale. Persone senza dimora e persone senza casa rappresentano ancora, oggi, mondi sociali distinti, popolazioni differenti, o forse le cose si vanno complicando e le configurazioni degli intrecci possibili si moltiplicano?

Se la prospettiva in cui ci si colloca nel leggere la povertà condiziona fortemente le strategie di azione messe a punto per contrastarla, è interessante interrogarsi sulle implicazioni di policy che discendono dalle modalità con cui il problema dell’homelessness viene socialmente rappresentato e costruito. Il fenomeno è divenuto recentemente oggetto di una rinnovata attenzione, in ragione della sua crescente visibilità e sotto l’impulso della programmazione europea, che ha stimolato politiche nazionali dedicate al contrasto della grave marginalità adulta e lo ha reso oggetto di uno specifico interesse politico. Si prospetta un’importante finestra di opportunità di cambiamento: in diversi contesti si affermano esperienze interessanti di ri-orientamento dei sistemi locali di welfare e di co-progettazione territoriale dei servizi e delle strategie di intervento in risposta alla povertà estrema e alla precarietà abitativa2. Tuttavia, come sappiamo, tra immaginari, discorsi pubblici, configurazioni che assumono le politiche e pratiche del lavoro sociale vi sono relazioni di circolarità tutt’altro che semplici da dipanare. Ci auguriamo che i tempi siamo maturi per un cambio di passo nelle politiche ma anche nelle retoriche pubbliche.

  1. Si veda l’articolo di Teresa Consoli, Senza dimora: nuovi profili di bisogno e vecchi diritti, pubblicato su Welforum il 30 giugno 2023.
  2. Si veda il contributo di Caterina Cortese, Lo sviluppo dei servizi per persone senza dimora e il necessario cambio di paradigma, pubblicato su Welforum il 14 luglio 2023.

Commenti

Ho fatto la tesi 56 anni fa sulle case dei poveri con il prof. Antonio Tosi. Dopo 48 anni di lavoro sociale nel campo della disabilità, da 6 anni incontro come volontaria molti senza dimora. Concordo con l’articolo e spero proprio in politiche sociali più appropriate e lungimiranti.