Senza dimora: l’esperienza del Gruppo Adulti Multiproblematici a Livorno


Loredana BertagniAlessandro Carta | 18 Settembre 2023

Il Gruppo Adulti Multiproblematici (GAM) è un percorso nato a Livorno ormai 15 anni fa, quando ancora l’orizzonte delle equipe multidimensionali era lontano da una teorizzazione ma non dall’operatività e dalla riflessione degli operatori. La percezione dei professionisti era che le persone beneficiarie “attraversassero” i servizi, lasciando dietro di sé tracce ed indizi. La necessità che si avvertiva era quella di comprendere questi elementi, raccoglierli e renderli coerenti all’interno di un unico quadro, cercando quindi di comprendere come portare quei singoli elementi dentro uno scenario coerente che consentisse di non guardare il particolare ma il tutto.

L’idea nasce all’interno dell’Area Adulti e Marginalità come una “profonda” esigenza di confrontarci con colleghi che incontravano le stesse nostre persone, come Caritas, Unità di strada, Centro multifunzionale per le dipendenze. Avevamo la sensazione – e non era solo quella – di “girare a vuoto” e non riuscire a cogliere quali fossero i reali bisogni delle persone. Era forte il bisogno di “ritrovarsi”, di fare gruppo per pensare, progettare non essere come isole nel deserto.

Le necessità erano tante: coordinarsi rispetto alla distribuzione dei beni di prima necessità la sera, organizzare piccoli traslochi e non essere impreparati di fronte al crescente numero di persone in strada durante il periodo invernale.

Nasce proprio al nostro interno l’idea di organizzarci in maniera più sistematica, insieme all’ufficio Casa, per offrire un’ospitalità alternativa al nostro dormitorio, per due mesi d’inverno, per le persone che presentavano maggiori fragilità rispetto a problematiche sanitarie ed età anagrafica avanzata. L’organizzazione di incontri con Avvocati di strada per la questione della residenza anagrafica ci ha portato, grazie anche al Progetto Reticulate, a formulare un’ulteriore possibilità di residenza fittizia.

Tutto questo ha consentito la maturazione dell’idea di un gruppo operativo fondato su un lavoro sistemico, integrato e non episodico, quindi non centrato sulla singola situazione problematica ma per cui il singolo indizio, raccolto quotidianamente da ogni realtà, potesse rappresentare un’occasione per costruire un quadro unitario. Questo perché, nel corso delle attività di ciascun servizio, si era rilevato il rischio di “andare fuori strada”, pericolo causato dall’assolutizzazione di un singolo sintomo, che certo può necessitare di una risposta, ma che non rappresenta necessariamente la multidimensionalità della situazione complessa e che anzi, tendenzialmente, la esclude.

Il nostro punto di forza è sempre stato quello di essere nati “dal basso” con una dose massiccia di volontà ed entusiasmo, all’inizio quasi un gruppo non ufficiale ma che proveniva dalla naturale determinazione dei singoli operatori.

Dopo tutti questi anni il GAM è stato riconosciuto come gruppo “ufficiale” che si occupa di marginalità estrema in ogni sua forma, con una determina da parte del Dirigente dei Servizi Sociali del Comune di Livorno. La nostra sede d’incontro è stata fin da subito il nostro dormitorio denominato SEFA (Social Emergency First Aid), un luogo privilegiato dove avveniva il naturale incontro delle varie necessità delle persone.

Il GAM si incontra mensilmente ed è composto da vari soggetti di diverso background professionale. Il perno è rappresentato dall’Area Adulti e Marginalità del Servizio Sociale del Comune di Livorno e vi fanno parte anche operatori e professionisti afferenti all’area sociosanitaria (CSM, SERD, consultorio), alla parte relativa alla giustizia (UEPE) e gli attori territoriali e del Terzo settore.

Il GAM rappresenta uno spazio volto all’ascolto attivo dell’altro, che risulta necessario alla progettazione condivisa dei percorsi, alla strutturazione delle idee che non restano mai pure ma che, in qualche modo, sono sempre ridefinite dai contributi dei presenti. In quest’ottica, è necessario operare una riflessione sul tema del conflitto, inteso quale risorsa, in tutta la sua positività, e come strumento necessario affinché la dinamica di confronto porti a individuare percorsi realmente condivisi. Quando non si sa gestire in maniera costruttiva e generativa il conflitto, si cerca un compromesso, ossia una soluzione di comodo, si rimanda o si elude la questione finché non questa non arriva ad esplodere, si privilegiano i propri interessi. Da un punto di vista metodologico, il conflitto invece rappresenta la leva al confronto. In un gruppo funzionale non può essere stimolata la dimensione del “o io o te”, né la possibilità del compromesso: occorre mettere in discussione il proprio punto di vista e, grazie all’orientamento dell’altro, recuperare quello che altrimenti sarebbe stato impossibile vedere.

Ad oggi il gruppo prosegue i suoi incontri mensili con l’obbiettivo di riformulare i suoi obbiettivi attraverso incontri di formazione che volgono a ridefinire gli obbiettivi, a dare un nuovo impulso al gruppo che nel corso del tempo ha visto il cambio di tanti operatori. Ridefinirsi vuol dire ri-condividere la mission del gruppo che, in un contesto di maggiore complessità, ha la necessità di rinnovarsi continuamente, mantenendo fermo il fulcro che è quello della capacità di aver messo insieme enti del pubblico e del privato sociale intorno ad un tavolo, con quella dose di entusiasmo che ci ha permesso di “riconoscerci”, “stimarci” e proseguire il nostro cammino.

Essere costantemente preparati ad accogliere la complessità, coinvolgere sempre più attori attraverso tavoli tematici flessibili, perché nessuno, né gli operatori né le persone che si rivolgono ai servizi, si sentano soli ad affrontare le difficoltà.

All’interno del GAM, il confronto sulle situazioni e i sui casi incontrati dalle diverse équipe di operatori ha condotto all’individuazione di alcune dinamiche relazionali inadeguate o imperfette che con il tempo possono essere assunte nelle esperienze di lavoro. Si tratta di convincimenti di cui si avverte l’eco e su cui si costruiscono le reciproche percezioni, di approcci, che si fondano su convinzioni fuorvianti, che è importante saper riconoscere ed evitare:

  • Lo “conosciamo”: non occorre andare oltre. Talvolta prevale nell’operatore la convinzione di avere acquisito nel tempo sufficienti informazioni sulla persona che si presenta al servizio e che non sia necessario approfondire l’ascolto. Il messaggio sottinteso è “ho già capito (non occorre che capisca) chi sei”. È vero che sono molte le persone che frequentano da anni gli sportelli dei servizi territoriali, è vero che i database dei centri di accoglienza sono spesso ricchi di dati che raccontano la storia e il profilo delle persone, ma assumere un atteggiamento di pre-comprensione porta necessariamente ad una posizione di chiusura. La reazione della persona può tradursi nel pensiero “per te io non esisto, non vale la pena opporre resistenza, sarò chi hai già deciso che io sia”. L’incontro con l’altro, che spesso procede attraverso il disvelamento di passaggi sofferti e traumatici, è inibito. Gli esiti, che possono essere rappresentati simbolicamente da un nodo di arresto – tra i più difficili da sciogliere – si strutturano su risposte a breve termine e impersonali. I servizi dedicati alla marginalità adulta possono correre il rischio di offrire risposte prestazionali che però non si traducono in percorsi di aiuto, in traiettorie evolutive in cui è possibile rintracciare e valorizzare dei segnali di cambiamento delle persone.
  • Dare a chi ha titolo e a chi merita. Gli strumenti di lavoro che l’operatore ha a disposizione in alcuni casi sono orientati alla verifica delle condizioni oggettive di bisogno della persona. Si chiede all’altro di mostrare e dimostrare la veridicità di quanto presenta come necessità o di dare prova di aver rispettato le condizioni pattuite, magari per meritare l’approdo ad un livello superiore di opportunità fruibili. In questi casi le valutazioni professionali rischiano di condurre ad atteggiamenti indagatori che costringono la relazione in una dinamica che genera ansia da una parte e sfiducia dall’altra, in cui, anche senza che sia voluto, la persona da accogliere percepisce nell’operatore un senso di sospetto e di diffidenza. Ne scaturisce un approccio prevalentemente orientato alla ricerca delle regole e al controllo e in questa dimensione il professionista diventa un certificatore di requisiti, che hanno la meglio sui diritti. Siamo in un gioco di potere. Simbolicamente possiamo ricondurre questo scenario ai nodi di avvolgimento che hanno la caratteristica di avviluppare e di imbrigliare e che rimandano all’idea di un sistema che quando impone agli “utenti” iter burocratici estenuanti e in parte poco decifrabili può indurre anche alla rinuncia della rivendicazione delle proprie ragioni.
  • L’altro non sarà mai in grado di gestirsi e di prendere il timone della sua vita. Un’altra convinzione fuorviante è riconducibile alle situazioni in cui pensiamo che l’altro non sia capace di guidare la propria vita. Lo sbilanciamento nella relazione avviene perché scelta e controllo risultano simultaneamente una prerogativa di chi, sul piano professionale, si sente investito in modo autoreferenziale della responsabilità del progetto di aiuto. Se il messaggio implicito è “io so che cosa è meglio per te”, la dinamica relazionale rischia di scivolare verso un senso di onnipotenza dell’operatore che veicola alla persona la convinzione di poter vincere la sua fragilità. Per l’altro, risulta più conveniente e meno compromettente delegare e non assumersi il rischio di autodeterminarsi. L’esito: andare oltre il bisogno e tarpare le ali con l’illusione di proteggere. Questo accade perché è difficile, talvolta, per il professionista, lasciare che la persona intraprenda percorsi non immaginati o non previsti. In questi casi nella comunicazione prevalgono i toni moraleggianti che inducono al senso di colpa e a dinamiche manipolative. La persona, come in un nodo scorsoio che si serra in base alla tensione della corda, ha una libertà di movimento che è solo apparente. È certamente sfidante accettare la prospettiva in cui i servizi diventando capaci di congedo anche quando si ha l’intuizione che, secondo una nostra valutazione, i rischi per la persona siano superiori alle opportunità.
  • Se dovessimo star dietro ai bisogni o ai desideri delle persone… “Questo è ciò che posso fare, è il punto a cui posso arrivare, accontentati e non essere ingrato”. Il tenore di questo tipo di messaggi, quando si impone, induce ad un adattamento passivo, ad una riduzione della persona. Si dimentica che “le persone senza dimora sono esperte grazie alla loro esperienza: comprendono i loro bisogni e sanno meglio di chiunque altro di quale tipo di sostegno hanno bisogno”1. Ancor più nei sistemi di intervento che agiscono in condizioni di emergenza e urgenza sociale è necessario che a prevalere sia la logica dell’appropriatezza2 fondata su una capacità di discernimento. Se non c’è spazio per l’ascolto dei desideri e non solo dei bisogni, l’esito sarà un’omologazione esasperata delle risposte che generano l’autogratificazione di chi, accogliendo in modo spersonalizzato, spreca energie in risposte inadeguate3.

Quali sono, di controparte, gli approcci a cui tendere e che il GAM aiuta a rileggere, ricomprendere e rimodulare? Il gruppo punta essenzialmente alla pratica di “nodi di giunzione” e di “ancoraggio alle soste”. Con il primo si intende rappresentare il tipo di interdipendenza tra le varie anime coinvolte nei processi di aiuto; il nodo di giunzione rende l’idea della libertà autentica attraverso cui l’altro può sprigionare appieno le proprie capacità. Allo stesso tempo, attraverso il nodo di ancoraggio per le soste, la persona sa di avere un luogo sicuro in cui fermarsi, a cui affidarsi, a cui poter tornare; a determinare il punto di equilibrio è una “tensione costante”, base dell’arte della relazione.

  1. FEANTSA, Guida all’Housing First Europa, pag. 79.
  2. Cfr. MLPS, Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali, pag. 108.
  3. Ampi spunti per approfondire questo tema sono rintracciabili in V. Porcellana, Dal bisogno al desiderio. Antropologia dei servizi per adulti in difficoltà e senza dimora a Torino, Milano, 2016.