Contrasto alla povertà e oltre


Nunzia De Capite | 22 Febbraio 2023

Non chiediamo a una misura di contrasto alla povertà di fare più di quel che le compete

Come occuparsi di contrasto alla povertà nel nostro Paese oggi? Sembra di non venirne a capo, perché se è vero che negli ultimi anni le risorse pubbliche destinate al sostegno alle persone in povertà sono aumentate esponenzialmente (basta confrontare gli stanziamenti del Reddito di inclusione nel 2017 con quelli dell’attuale Reddito di cittadinanza), è anche vero che la povertà assoluta, aumentata progressivamente a partire dalle due crisi del 2008-2009 e del 2012, a distanza di anni da allora, non accenna a diminuire, attestandosi su livelli molto più alti del 2007 (nel 2021 5,6 milioni di persone; 1,9 milioni di famiglie). Ecco il primo paradosso. E a questo si aggiunge anche un altro tassello: nel 2021 circa 1 italiano su 4 (25,2%) era a rischio di povertà ed esclusione sociale, che vuol dire che siamo fra i paesi in cui è più alto il numero di persone che rischiano di precipitare nel disagio economico da un momento all’altro, per un peggioramento improvviso della loro condizione economica, lavorativa o per il subentrare di un imprevisto. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che una frangia consistente di persone nel nostro paese è stretta nella morsa della povertà assoluta da una parte, condizione da cui si esce sempre più a fatica e dopo molto tempo (anche i dati Caritas su questo sono molto eloquenti, come si è avuto modo di leggere nell’articolo di De Lauso), e del rischio di caduta in povertà, dall’altra: gli argini si sono rotti, le protezioni si sono sgretolate, si cade con più facilità e, una volta caduti, è molto arduo uscirne.

In una tale situazione, che cosa chiedere e che cosa aspettarsi dagli interventi di matrice pubblica di contrasto alla povertà? Sono solo le misure in vigore a non funzionare oppure sono anche le condizioni strutturali del nostro sistema economico, produttivo, lavorativo a richiedere interventi più ampi e di varia natura per uscire dal guado?

È utile fare questo esercizio di analisi perché aiuta a ridimensionare le aspettative e ad attribuire a ogni strumento di politica pubblica il suo obiettivo più proprio.

Venendo al Reddito di cittadinanza, per esempio, sicuramente esso ha procurato un innegabile immediato sollievo economico a moltissime famiglie in difficoltà, soprattutto nella fase dell’emergenza Covid: l’Istat e l’Inps hanno calcolato che senza il RdC sarebbero cadute in povertà oltre un milione di persone in più. Ma da qui a immaginare che il RdC possa realizzare inclusione sociale, inserimento lavorativo e miglioramento delle condizioni di vita delle persone dopo solo alcuni mesi dalla sua ricezione, il salto è troppo lungo. Significherebbe chiedere a una misura che deve occuparsi di povertà di risolvere molti dei problemi strutturali del nostro paese: improprio prima ancora che irrealistico.

Inclusione: un processo dai tempi lunghi

Sia il contrasto alla povertà che l’inserimento lavorativo sono processi lunghi che richiedono tempo: se pensiamo, per esempio, a quella parte di percettori di RdC che vengono indirizzati ai servizi sociali, non dobbiamo dimenticare che la povertà è un fenomeno sempre più cronico da cui è difficile uscire in tempi brevi e inoltre, se consideriamo coloro che vengono orientati ai CPI perché considerati “occupabili”, il profilo di costoro è problematico (basso grado di istruzione, lontani dal mercato del lavoro, esperienze lavorative pregresse frammentate e di breve durata, una generale demotivazione e disorientamento rispetto anche a quale lavoro desiderare e come chiederlo). Di conseguenza occorrono interventi adeguati, lunghi e di vario tipo per queste persone sia dal punto di vista sociale che sul fronte lavorativo. Inoltre, e Caritas lo ha indicato nel suo ultimo rapporto sulle politiche contro la povertà (Adeguate ai tempi e ai bisogni), si è sempre solo ragionato finora sull’offerta di lavoro, ovvero sulle competenze delle persone, trascurando invece la domanda di lavoro delle imprese, del settore pubblico e di altri soggetti privati. È tempo di includere nel ragionamento sull’inserimento lavorativo anche questo altro fondamentale tassello, in modo da fare una riflessione organica e di prospettiva e che adegui la formazione delle persone alle esigenze del mercato del lavoro.

Partire dai poveri e mettere bene a fuoco la misura

Come agire però intanto sul RdC? Nonostante i suoi risultati in termini di contenimento dell’impoverimento soprattutto in pandemia, è ormai opinione ampiamente diffusa che il RdC necessiti di consistenti revisioni: su questo ormai vi è già da molto tempo ampio consenso fra gli operatori e fra gli studiosi. Il punto allora, in questo momento non è tanto difendere il RdC così com’è, ma avere nel nostro paese una misura pubblica che aiuti in modo adeguato tutte le persone in condizione di povertà. Oltre a Caritas, anche Cnel e Banca d’Italia stimano che la misura sia ancora troppo “fuori fuoco” rispetto alla povertà assoluta: per Caritas soltanto il 44% dei poveri assoluti la percepisce, per Banca d’Italia il 50%, per il Cnel il 39%. Questo non vuol dire che la misura vada a persone che non ne hanno diritto: chi lo riceve risponde ai requisiti previsti, che però individuano una platea di beneficiari che, oltre ai poveri assoluti, si estende anche a persone in povertà relativa. Il punto è che con i criteri attuali (soglie di accesso per livelli di reddito e patrimonio e anni di residenza in Italia) viene esclusa una quota consistente di poveri assoluti, composta soprattutto dagli stranieri, dalle famiglie numerose e dai poveri residenti al Nord: il RdC attuale è infatti percepito nell’89%1 dei casi da cittadini comunitari, ma l’incidenza di povertà assoluta fra gli stranieri è quattro volte superiore rispetto a quella degli italiani; il 41% dei nuclei percettori di Rdc è composto da una sola persona, mentre l’incidenza di povertà assoluta è più alta tra le famiglie con un elevato numero di componenti; il 70% dei percettori di RdC vive al Sud, nonostante il fatto che il 42,6% delle famiglie povere risieda al Nord (e il 42,2% nel Mezzogiorno2), e questo perché le regole e gli importi della misura sono unici in tutto il Paese, mentre le soglie di povertà usate dall’Istat per stimare il numero dei poveri sono maggiori al Nord, riflettendo il maggiore livello medio dei prezzi. Quello del target è un nodo prioritario nonché una opzione politica: sostenere in primis chi sta peggio, i poveri assoluti e non lasciare “buchi” in questa trama di sostegni, partire da loro per poi estendere gradualmente gli aiuti agli altri. Le azioni da intraprendere per indirizzare al meglio la misura verso i poveri assoluti sono, per esempio: fissare soglie di accesso basate sulla povertà assoluta e non sul rischio di povertà; prevedere un requisito di anni di residenza che non penalizzi i poveri stranieri; prevedere una scala di equivalenza che non penalizzi le famiglie numerose; introdurre compensazioni differenziate dei contributi per area a fronte di alcuni costi, ad esempio quelli per il riscaldamento o per l’affitto, che variano molto da area ad area (più alti al Nord, più bassi al Sud); rendere il più possibile compatibile la percezione del contributo con i redditi da lavoro, in modo da non disincentivare la ricerca di un lavoro mentre si riceve la misura e favorire la compresenza di reddito da lavoro e misure di contrasto alla povertà presso la stessa famiglia (allo stato attuale, invece, il RdC si riduce molto velocemente quando il reddito da lavoro aumenta, a partire dal primo euro di reddito guadagnato sul mercato: sarebbe opportuno ridurre questo disincentivo al lavoro, trasformando la misura di reddito minimo da strumento che disincentiva il lavoro a sussidio che invece lo incentiva)3. La mappa è abbastanza chiara. Non c’è che da metterla in atto per correggere le evidenti e penalizzanti distorsioni e iniquità che il RdC produce oggi.

Oltre e in aggiunta al contrasto alla povertà: sconfiggere la disuguaglianza

In aggiunta alla migliore messa a fuoco della misura di contrasto alla povertà, per rispondere alla domanda iniziale “che cosa non funziona?” occorre però anche allargare la prospettiva e considerare quel più ampio scenario strutturale menzionato all’inizio. È qui che entra in gioco il tema delle disuguaglianze, che affligge il nostro paese da tempo: disuguaglianze di reddito, di ricchezza, disparità di condizioni di lavoro e di trattamento economico e di tutele.  In una situazione in cui i redditi familiari sono oggi più bassi di più di dieci punti percentuali rispetto al 2006 e il lavoro si è precarizzato (riduzione degli orari di lavoro, aumento dei contratti a tempo determinato,  frammentarietà lavorativa, persistenza delle basse retribuzioni, lavoratori poveri4), interventi di tipo “redistributivo”, come il Reddito di cittadinanza, possono tutt’al più riequilibrare a valle il divario fra le disponibilità economiche delle persone attraverso interventi di erogazione economica. Ma, oltre ad esso, occorre pretendere che a livello centrale si mettano in campo anche interventi “predistributivi”, in grado cioè di agire a monte sui processi di creazione dei divari di reddito e di ricchezza fra le persone (regole del mercato del lavoro, tassazione, fisco, istruzione, salario minimo, ecc.). La scelta non è fra lotta alla povertà o lotta alla disuguaglianza: entrambe vanno perseguite con urgenza nella consapevolezza che se non si scioglieranno i nodi delle cause, la povertà e la disuguaglianza resteranno un destino ineluttabile per troppe persone nel nostro paese5.

  1. Cfr. Inps, 2022, ibidem.
  2. Cfr. Istat, Le statistiche dell’Istat sulla povertà. Anno 2021. Nel 2020 la proporzione era diversa e più sbilanciata al Nord, con il 38,6% di famiglie povere residenti al Sud e il 47% al Nord.
  3. Su questo si vedano le proposte elaborate da Caritas Italiana nel 2021 per il riordino del Reddito di Cittadinanza: “Lotta alla povertà. Imparare dall’esperienza, migliorare le risposte. Un monitoraggio plurale del Reddito di Cittadinanza” (Caritas Italiana – Presentazione monitoraggio Caritas sul Reddito di Cittadinanza).
  4. Cfr. Sestito P. (2021), Ora o mai più. Il futuro dell’economia italiana dopo la grande paura, Luiss
  5. Su questo si veda Franzini M. e Raitano M., (2023) Disuguaglianza e povertà in Italia: proviamo a fare il punto, Menabò di Etica ed Economia, 14 gennaio e 23 gennaio