La terza fase delle politiche contro la povertà
In seguito alla recente riforma del Reddito di Cittadinanza (RdC), le politiche contro la povertà in Italia entreranno in una nuova fase, la terza. La prima è quella delle sperimentazioni, in particolare il Reddito Minimo di Inserimento (1999-2003) e il Sostegno per l’Inclusione Attiva (Sia, 2014-2016). Lo Stato allora non prevedeva una misura di reddito minimo per chiunque ne avesse bisogno bensì interventi sperimentali, di carattere temporaneo, rivolti esclusivamente ad alcuni profili di povertà e/o a specifici territori.
La seconda fase, in corso, è quella degli interventi strutturali di reddito minimo fondati sul principio dell’universalismo selettivo. Si tratta del Reddito d’Inclusione (Rei) (2017-2019), la prima misura strutturale contro la povertà in Italia, e del successivo Reddito di Cittadinanza (2019-2023). Queste misure si basano sul diritto a ricevere un sostegno di chiunque si trovi al di sotto di una determinata soglia economica di povertà (selettività), indipendentemente da età, composizione del nucleo familiare, condizione occupazionale o altre specificità (universalismo).
Nel 2024, con l’introduzione dell’Assegno d’Inclusione (Adi), inizierà una nuova epoca, segnata da un intervento strutturale di reddito minimo basato sul principio della categorialità familiare. Il diritto a ricevere un sostegno non sarà più assicurato a tutti coloro i quali sono sotto una specifica soglia economica di povertà bensì solo ad alcuni tra questi (categorialità), individuati in base alle caratteristiche della propria famiglia, in particolare la presenza di figli minori (familiare).
Le nuove misure
La riforma prevede il passaggio dal Reddito di Cittadinanza a due prestazioni: l’Assegno per Inclusione (Adi) e il Supporto per la Formazione e il Lavoro (Sfl). L’Adi è una vera e propria misura contro la povertà: un sostegno continuativo – sino a che ne permane la necessità – i cui importi assicurano agli interessati un livello minimo di sussistenza. Lo ricevono i poveri che vivono in famiglie con minori, persone over60 e persone con disabilità.
Per tutti gli altri poveri, invece, c’è il Sfl, che non è una misura contro la povertà – come indica lo stesso Decreto – bensì un aiuto temporaneo, che dura solo 12 mesi, il cui ammontare perlopiù non permette un’esistenza accettabile, erogato a condizione che l’utente partecipi a corsi di formazione o progetti utili a collettività. Non si tratta di una vera risposta alla povertà, dunque, sia perché è a tempo limitato che a causa dell’inadeguatezza delle somme erogate. Consideriamo, ad esempio, una persona sola senza risorse economiche che vive in affitto: l’Adi le fornisce 780 euro al mese mentre il SFL 35O. Il Reddito di Cittadinanza, che pure aveva numerosi limiti, assicurava il diritto ad una vita dignitosa a tutti i poveri, senza penalizzarne alcuni. Ora, invece, chi non vive in famiglie con minori, over 60 o disabili ne è privo
La riforma del Reddito di Cittadinanza abolisce il diritto di ogni cittadino – quale che siano la sua età, la condizione lavorativa o altro – a una vita minimamente decente. Anche se questo diritto viene assicurato da tutti i Paesi europei, l’Italia diventerà l’unico a non prevederlo più. In ogni Stato europeo chiunque versi in condizioni d’indigenza, con risorse economiche inferiori a una determinata soglia di povertà, è titolato a ricevere con continuità nel tempo, fino a quando il bisogno persiste, un contributo monetario che gli permetta uno standard di vita minimamente accettabile (reddito minimo). Ciò viene garantito a tutti i poveri in quanto tali e non solo ad alcune categorie, come le famiglie con figli o senza componenti occupabili; abitualmente lo si coniuga con il dovere delle persone coinvolte di compiere ogni sforzo per uscire dall’indigenza, attraverso la ricerca di un lavoro o altro.
A causa del passaggio dall’universalismo alla categorialità familista, gruppi che fruiranno di diverse misure patiranno iniquità e sperequazioni poichè non riceveranno lo stesso trattamento in termini di continuità dell’assistenza, adeguatezza del contributo economico, supporto dei servizi e condizionalità/obblighi di attivazione. È ragionevole supporre che, come conseguenza delle iniquità sopra elencate, emergerà una contrapposizione tra gruppi sociali soggetti a tutele diverse.
L’impostazione descritta sopra produce l’equivoco del Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL). Il SFL, infatti, viene presentato come un intervento temporaneo finalizzato a trovare lavoro, rivolto a chi ha maggiore probabilità di riuscirvi (gli occupabili). Gli utenti, tuttavia, vengono definiti esclusivamente in base alla composizione del nucleo familiare (no figli, over60 o persone con disabilità), senza alcuna attinenza con le loro competenze e la loro storia lavorativa. Nessun Paese adotta una definizione di occupabilità priva di qualunque riferimento alle caratteristiche dei soggetti interessati.
La ragione di questa incongruenza è presto detta: i percettori dello Sfl sono scelti unicamente perché non appartengono al gruppo di persone considerate meritevoli di un sostegno continuativo, coerentemente con la logica della riforma sopra esposta; l’occupabilità, a ben vedere, non c’entra niente. In altre parole, i beneficiari del Sfl sono presentati dal Governo come “coloro che possono lavorare” mentre si tratta degli “esclusi dalle categorie meritevoli del diritto a una vita decente”. Ovviamente è irreale aspettarsi risultati occupazionali significativi da parte di persone che non sono state individuate in base alla loro maggior probabilità di trovare un lavoro.
Le politiche contro la povertà diventano parte di quelle per la famiglia
A motivare le scelte dell’Esecutivo non sembra l’intenzione di aiutare chi sta peggio, tutelando le fasce della popolazione dove maggiore è il disagio economico. Ad esempio, i tassi di povertà più bassi in Italia sono registrati nei nuclei con anziani, che rientrano nell’Adi, e i più alti in quelli con capofamiglia tra i 45-54 anni, che non vi rientrano in assenza di figli minori; inoltre, il nodo dei pochi aiuti ricevuti con il Reddito di Cittadinanza dai poveri del Nord non è stato affrontato, e così via.
Le ragioni, invece, paiono di natura valoriale. Risiedono nel diverso status di cittadinanza riconosciuto alle famiglie con specifiche responsabilità legate all’età o alle limitazioni fisiche dei propri componenti, in particolare quelle con figli minori, e al resto della popolazione. Si può provare a riassumerle in due assunti: i) “a meritare aiuto sono esclusivamente queste famiglie; ii) “non è compito dello Stato assicurare il diritto ad una vita decente per tutti i poveri.” In una simile impostazione, le politiche contro la povertà, che si rivolgono a tutti senza distinzioni, scompaiono e diventano un sottoinsieme di quelle per la famiglia, destinate cioè a un target specifico. L’obiettivo non è più assicurare a chiunque cada in povertà il diritto ad una vita decente, bensì proteggere le famiglie con figli (o altri carichi di cura) dalla povertà.
Pur essendo condivisibile l’intenzione di riservare ad alcune fasce della popolazione una protezione particolare, in ragione della loro maggiore esposizione al rischio di povertà (è il caso delle famiglie con figli), ciò non può ledere il diritto di tutte e tutti a ricevere un aiuto da parte dello Stato indipendentemente dal fatto di possedere caratteristiche anagrafiche o familiari di qualche tipo. L’esigenza di tutelare gruppi specifici non può, in altre parole, risultare sovraordinata rispetto alla protezione universale (per tutte e tutti) dalla povertà. Solo una volta garantita una base di aiuto per tutti i poveri, e dopo aver quindi riconosciuto il diritto universale di ogni cittadino/a essere sostenuto/a in casi di povertà, si dovrebbero istituire forme di aiuto supplementari per particolari fasce della popolazione.
La proposta Caritas
Caritas Italiana ha recentemente proposto una riforma del Rdc attraverso l’introduzione di due nuove misure. Una, il Reddito di Protezione, è rivolta alle famiglie in povertà, con l’obiettivo è garantire a tutti la possibilità di condurre una vita dignitosa offrendo percorsi di integrazione sociale e di avvicinamento al mercato del lavoro. L’altra, l’Assegno per il lavoro, è rivolta ai disoccupati con maggiori prospettive di impiego, in grave difficoltà economica e privi di altri sostegni contro la disoccupazione; la sua finalità è il re-inserimento lavorativo.
La riforma del Governo istituisce due misure indipendenti rivolte a due categorie di poveri mutualmente esclusive, identificate in base alla composizione del nucleo familiare. Al contrario, la Caritas propone due misure integrate tra loro: una universale di contrasto alla povertà, ovvero una misura analoga a quella esistente in tutti i paesi europei rivolta a tutte le famiglie povere indipendentemente dalle caratteristiche del nucleo familiare, ed una misura complementare di inserimento occupazionale per le persone a rischio di povertà che non hanno accesso ad altri sussidi di disoccupazione.
Per andare nella direzione indicata dalla Caritas si dovrebbe eliminare dall’Adi il vincolo che esclude le famiglie senza carichi familiari, così da renderla una misura universale rivolta a chiunque sia in povertà. Il Sfl, allora, diventerebbe un programma speciale di intenso rafforzamento di competenze, da destinare, però, a chi ha effettivamente maggiori probabilità di trovare lavoro (disoccupati che hanno esaurito la Naspi e disoccupati da non oltre 1 anno).