3.5. Cure territoriali: la sfida di un cambiamento


Paolo Peduzzi | 28 Luglio 2020

La pandemia da Coronavirus, in particolare in Lombardia la Regione più interessata da un punto di vista epidemiologico, ha reso evidente la fragilità di un sistema di cure territoriali non adeguato ad affrontare una situazione epidemiologica imprevista, che richiede la presa in carico a livello domiciliare di una patologia infettiva acuta, riservando il ricovero ospedaliero ai casi più impegnativi che richiedono  una respirazione assistita.

 

Il focus dello sviluppo organizzativo dei servizi territoriali negli ultimi decenni ha riguardato i percorsi di diagnosi, terapia e assistenza delle patologie croniche per effetto della loro rilevanza epidemiologica  e del conseguente peso in termini di carico assistenziale e di assorbimento di risorse del SSN.

Le singole regioni, su impulso anche dei Piani sanitari nazionali, hanno sviluppato iniziative volte al potenziamento delle cure domiciliari e a migliorare l’appropriatezza dei percorsi e la continuità assistenziale tra i diversi livelli di cura. Dagli anni 90 lo sviluppo delle cureterritoriali è avvenuto per progressiva implementazione di servizi e figure professionali, aumentando la complessità del sistema e della costruzione di un’offerta unitaria ai bisogni di salute degli assistiti. Le cure domiciliari si sono sviluppate seguendo modelli diversi nelle singole regioni, ma comunque con un’organizzazione autonoma del personale addetto, prevalentemente di natura infermieristica, rispetto a quella dei medici di medicina generale, creando problemi  tra responsabilità clinica, teoricamente in capo al medico di medicina generale, e responsabilità organizzativa in capo alle ASL o a erogatori accreditati. La continuità assistenziale, che pure è cruciale per garantire al cittadino una presa in carico dei propri bisogni di salute nell’arco delle 24 ore e tutti i giorni della settimana, si è sviluppata come servizio autonomo e con professionisti diversi rispetto ai medici di medicina generale.

Sostanzialmente però l’impianto organizzativo delle cure territoriali è ancora quello della Legge 833/80 e, per quanto riguarda la medicina generale e la pediatria di famiglia, di un Accordo Collettivo Nazionale che, negli anni, ha subito lievi aggiornamenti, senza modifiche sostanziali dei vincoli che ne limitano lo sviluppo organizzativo e il ruolo nell’ambito delle cure territoriali, per adeguarlo al cambiamento del contesto epidemiologico.

 

Un segnale positivo di un possibile cambiamento di paradigma dell’organizzazione dell’assistenza primaria era stato dato a livello nazionale nel 2012 con la legge 189 contenente norme per la razionalizzione dell’attività assistenziale e sanitaria, promosso dal Ministro Balduzzi,  che ha cercato di innescare processi di sviluppo organizzativo della medicina generale in una logica di assistenza primaria, prevedendo forme organizzative multiprofessionali (unità complesse di cure primarie) in grado di “erogare prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l’integrazione dei professionisti delle cure primarie e del sociale a rilevanza sanitaria”, garantendo l’attività assistenziale per l’intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana.

Tale segnale, propedeutico a mettere mano a una riorganizzazione dei servizi territoriali, e in particolare ai limiti e ai vincoli posti dall’ACN, èstato raccolto e sviluppato solo parzialmene per una serie di condizioni: la mancanza di una visione politica e di risorse per  sviluppare un disegno organico di riorganizzazione, l’interesse dei sindacati medici di non modificare lo status quo, entrando nel merito di una necessaria revisione degli ACN, la tendenza  delle regioni a ritagliarsi spazi di autonomia nel contesto dato, seguendo propri modelli sanitari. Per citare le esperienze più significative: la Lombardia, partendo da una svalutazione del ruolo del medico di medicina generale, ha sviluppato modelli di presa in carico territoriale della cronicità fondati sull’apertura dell’assistenza territoriale ad erogatori ospedalieri pubblici e privati; l’Emilia ha investito sull’organizzazione della rete territoriale, attraverso lo sviluppo delle case della salute e i nuclei di cure primarie quale modalità organizzativa della medicina generale;  la Toscana ha potenziato la medicina d’iniziativa dei medici nei confronti delle malattie croniche e implementato le case della salute quale ambito organizzativo di team multidisciplinari, il Veneto ha previsto la costituzione di medicine di gruppo integrate, quali team multiprofessionali contestualizzati negli ambiti distrettuali; il Friuli ha incardinato  le forme roganizzative dell’assistenza primaria nell’ambito del Distretto e introdotto la figura dell’infermiere di famiglia.

 

Le esperienze e i percorsi regionali e locali relative ai servizi territoriali sono quindi diverse, alcune positive per lo sforzo d’implementazione e coordinamento tra i diversi professionisti convenzionati e dipendenti.

È comunque elemento comune, perché rinvia ai vigenti Accordi Collettivi Nazionali, la debolezza organizzativa della medicina generale in rapporto ad un’auspicata struttura unitaria delle cure primarie, in grado di farsi carico di una domanda di salute complessa, tale da richiedere risorse e organizzazione che il singolo professionista non può garantire.

 

In continuità con precedenti documenti dell’OMS e dell’OCSE, il recente Rapporto OCSE 2020 “Realising the potential of primary health care”  auspica per l’assistenza primaria una transizione da una pratica individuale ad una pratica di team, che richiede:

  • un cambio nella governance e nei sistemi di pagamento;
  • un cambio nella cultura e nell’organizzazione dell’assistenza, con una maggiore collaborazione e interazione tra professionisti e tra questi e i pazienti;
  • un cambio nella formazione e nel training per assicurare le competenze necessarie per un lavoro di team.

 

Il documento OCSE mette chiaramente in risalto come per realizzare il potenziale dell’assistenza primaria, in grado di affrontare le nuove sfide epidemiologiche, è necessario passare da una pratica individuale ad una pratica di team multiprofessionale, cosa che comporta nella situazione italiana un profondo cambiamento delle modalità organizzative dell’assistenza primaria, rivedendo il ruolo e la tipologia di rapporto con il SSN dei medici di medicina generale e dei pediatri di famiglia.

 

È un percorso in salita e in discontinuità rispetto alla logica perseguita in questi anni di aggiungere servizi e figure professionali sul territorio, senza mettere mano ad una riorganizzazzione del settore.

I contenuti del recente DL 34, che stanzia nuove risorse per il potenziamento del servizio sanitario nazionale, evidenziano come per ora, al dilà delle parole, la logica perseguita sia in continuità con quanto affermato: accanto infatti a risorse aggiuntive per le cure domiciliari e le unità di continuità assistenziale, sono stanziate risorse ad hoc per l’introduzione della figura dell’infermiere di famiglia, prevedendo dal 2021 un rapporto di dipendenza con il SSN, lasciando aperto il nodo della sua collocazione organizzativa,  e in particolare il livello d’interazione organizzativa con gli altri professionisti. Se da una parte è lodevole, e sicuramente risponde ad un bisogno, l’implementazione della figura professionale  infermieristica con  specifiche competenze nella gestione delle fragilità e delle malattie nell’ambito dell’assistenza territoriale, in grado di agire e interagire all’interno di team socio sanitari, è evidente la mancanza per ora di un disegno unitario in cui collocare la nuova figura professionale. Il Decreto prevede infatti anche un piccolo stanziamento per gli infermieri di supporto ai medici di medicina generale, nella misura del 3% rispetto allo stanziamento previsto per l’assunzione dell’infermiere di famiglia.

 

Esiste, è indubbio, un problema di scarsità di risorse e di sottofinanziamento dei servizi  territoriali, e quindi ben vengano gli stanziamenti già allocati e le risorse previste dal Recovery Fund, ma il problema  principale è la mancanza di un disegno organizzativo  dei servizi sanitari territoriali in grado di garantire ai cittadini una risposta chiara ai loro problemi di salute, ricostruendo intorno alla figura del medico di fiducia dell’assistito (medico di medicina generale/pediatra di famiglia) l’apporto delle altre figure professionali.

L’impatto dell’attuale pandemia ha reso evidente come, accanto all’approccio proprio della patologia cronica, che comporta l’attivazione nel tempo di specifici percorsi diagnostico terapeutici, in cui assicurare continuità di cura e integrazione  tra diversi professionisti e livelli d’assistenza, l’organizzazione dell’assistenza territoriale debba garantire  un buon livello di reattività per fronteggiare l’emergere di una sintomatologia riconducibile alle patologie infettive. Garantire l’attenzione ad entrambe le aree problema, patologie croniche e patologie infettive emergenti, richiede alla medicina generale un salto di qualità organizzativo, che non può prescindere da una forte iniziativa politica indirizzata a riorganizzare l’assistenza sanitaria territoriale.

In linea con le indicazioni dell’Ocse,  il primo riferimento per i problemi di salute della popolazione dovrebbe essere costituito da un team di professionisti (medici, pediatri, infermieri, amministrativi) in grado di assicurare alla popolazione assistita :

  • l’accesso alla consulenza e alle prestazioni di diagnosi e cura, in caso di bisogno, lungo tutto l’arco della giornata e 7 giorni su 7;
  • la presa in carico dei problemi di salute attraverso interventi di prevenzione, diagnosi, cura e assistenza, valorizzando le diverse professionalità e competenze presenti nell’ambito del team, favorendo la partecipazione attiva degli assistiti, collaborando, in una logica di allerta epidemiologica e di continuità del percorso di cura, con i professionisti dei servizi di prevenzione e degli altri livelli di assistenza.

La situazione determinatasi con la pandemia di Coronavirus è potenzialmente favorevole a iniziative anche radicali di cambiamento dell’assetto organizzativo delle cure territoriali, partendo dal riconoscimento dei limiti e delle insufficienze riscontrate nell’impattio con l’epidemia. La possibilità di investimenti in termini di risorse aggiuntive crea le condizioni per valorizzare tutte le risorse professionali, incentivandole al cambiamento e a percorrere nuovi assetti organizzativi. L’operazione non è esente da difficoltà e rischi ed è necessaria una forte iniziativa politica a livello centrale in grado di perseguire una logica sistemica:

  • delineando una visione dell’assistenza primaria e della sua organizzazione in rapporto alle necessità epidemiologiche;
  • assicurando il coinvolgimento dei diversi attori (regioni, sindaci, rappresentanti dei medici delle cure primarie e degli altri professionisti coinvolti) nel disegnare un’organizzazione delle cure primarie adeguata al contesto epidemiologico;
  • avviando percorsi virtuosi di cambiamento che prevedano anche l’ ìmplementazione di  sperimentazioni organizzative e investimenti coerenti in termini di risorse.