3.4. Il Coronavirus e l’organizzazione sanitaria locale


Paolo Peduzzi | 28 Luglio 2020

L’evoluzione nel tempo dell’epidemia di Coronavirus si accompagna ai primi tentativi di lettura e analisi di quanto accaduto e del ruolo dell’organizzazione sanitaria nell’influenzare la capacità del virus di infettare la popolazione e la relativa morbosità e mortalità.

Il rischio è di utilizzare nell’analisi categorie e schemi scarsamente utili nell’interpretare l’evoluzione dell’epidemia e nel prefigurare linee di una politica sanitaria efficace nell’affrontare le nuove sfide epidemiologiche; categorie e schemi oggetto di dibattito e contrapposizione politica in Lombardia, quali il livello di autonomia regionale nella gestione della sanità e il rapporto tra sanità pubblica e sanità privata.

Ritengo che l’epidemia di Coronavirus ci costringa a rileggere il percorso logico di approccio alle malattie infettive ad andamento epidemico, che negli ultimi decenni abbiamo dimenticato, mettendo ordine nella scala dei problemi da affrontare.

L’evento epidemico deve essere affrontato consapevoli che i pazienti ricoverati in ospedale, che richiedono terapie intensive, rappresentano l’apice della piramide degli interventi sanitari, a fronte della base della piramide, rappresentata dalla popolazione esposta al contagio, che richiede interventi di prevenzione econtrollo.  Pertanto i livelli su cui focalizzare l’attenzione sono, in ordine logico:

  • il sistema di allerta e di messa in atto dei meccanismi di prevenzione del contagio;
  • l’individuazione, l’isolamento e la gestione clinica sul territorio dei casi di contagio e malattia;
  • l’accesso alle cure specialistiche ospedaliere per i casi clinicamente più impegnativi.

 

Se rileggiamo quanto avvenuto nelle prime fasi dell’epidemia, possiamo rilevare, a ciascuno dei tre livelli sopraindicati, alcune criticità:

  • la reattività del sistema di allerta è stata bassa, nonostante l’evoluzione dell’epidemia, a partire dall’emergere dei primi casi sospetti e dall’evidenza dell’epidemia nella regione di Wuhan, avesse dato un tempo ragionevole per mettere in atto gli interventi necessari a prevenire e controllare il contagio.  La reponsabilità dei ritardi è da ascrivere a tutti i livelli di governo dell’organizzazione sanitaria internazionale e nazionale, dal Governo Cinese, che ha oscurato le fasi iniziali dell’epidemia, all’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che ha sottovalutato nelle fasi iniziali il rischio di pandemia, alle autorità sanitarie nazionali e regionali scarsamente reattive nell’allertare per tempo la rete dei servizi territoriali e dei presidi sanitari.  E’ nel merito significativo come già l’8 gennaio sul suo sito, il dr.Roberto Burioni riportava la notizia di un comunicato del 3 gennaio delle autorità sanitarie della città di Wuhan che segnalava casi di strane polmoniti, in cui i pazienti coinvolti avevano in comune la frequenza di un mercato in cui si vendono animali vivi.
  • i ritardi del sistema di allerta hanno reso difficile, nelle fasi iniziali l’individuazione, l’isolamento e la gestione clinica sul territorio dei casi di contagio e malattia. Il riscontro da parte dei medici di medicina generale di pazienti con una sintomatologia a posteriori rinducibile al Coronavirus, in mancanza di informazioni aggiornate sulle possibilità di diffusione del contagio anche nel nostro paese, si è facilmente confuso con l’andamento stagionale dell’epidemia influenzale annuale e con le sue complicanze respiratorie. Come conseguenza collaterale i medici di medicina generale, impegnati nella cura di questi pazienti, si sono trovati impreparati ad utilizzare i dispositivi di protezione individuale e sono tra i professionisti sanitari che hanno pagato  un pesante tributo in termini di malati e di decessi. Inoltre l’andamento inizialmente sommerso dell’epidemia, con la presenza di portatori asintomatici o paucisintomatici ha facilitato la sua diffusione nelle categorie più fragili della popolazione, in particolare nelle case di riposo.
  • la carenza di un filtro consapevole sul territorio da parte dei medici di medicina generale, ha portato le strutture ospedaliere a trovarsi impreparate nell’affrontare l’accesso di pazienti con una sintomatologia  non immediatamente riconducibile al Coronavirus. La conseguenza è che gli stessi ospedali, a  partire dai Pronto Soccorso e dai reparti di degenza degli ospedali di piccole dimensioni,  si sono trasformati, in una fase iniziale, in luogo di contagio per i pazienti e gli operatori sanitari.

 

In riferimento alla situazione lombarda la Federazione Regionale degli Ordini dei Medici della Lombardia, in un comunicato del 5 aprile rimarca come “la sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate” ed evidenzia,  come esempio “dell’assenza di strategie relative alla gestione del territorio”: l’errata impostazione della raccolta dati, che sottostima il numero dei malati e il numero dei deceduti, l’incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio, la gestione confusa delle realtà delle RSA, la mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio, l’assenza delle attività di igiene pubblica (isolamenti, tamponi..).

 

Quali spunti di riflessione trarre dagli eventi di queste settimane? Ne suggerisco tre , uno per ciascuno dei livelli sopraevidenziati, pensando quanto può essere messo in atto a livello locale:

  • riconsiderare i livelli di responsabilità e le linee di comando relative alla salute pubblica in presenza di eventi epidemici, ridefinendo con chiarezza  i ruoli tra livello nazionale e livello regionale e recuperando  il ruolo del Sindaco quale autorità sanitaria locale. In tale veste infatti il Sindaco, ai sensi dell’art. 32 della legge n. 833/1978 e dell’art. 117 del D.Lgs. n. 112/1998, può emanare “ordinanze contingibili ed urgenti”, con efficacia estesa al territorio comunale, in caso di emergenze sanitarie e di igiene pubblica.  Nel palleggiamento di responsabilità tra Governo e Regione, a cui si è osservato rispetto ai provvedimenti di chiusura di ambiti comunali,  i Sindaci avrebbero potuto  essere messi nelle condizioni di assumersi la responsabilità di tutelare le proprie comunità.
  • investire sull’organizzazione dei servzi di assistenza primaria e quindi, in primis, dell’organizzazione dei medici di medicina generale, per costruire una rete sanitaria territoriale in grado di gestire la grande prevalenza dei problemi sanitari, compresa l’individuazione, l’isolamento e la gestione clinica domiciliare dei casi di contagio e malattia infettiva. Le Residenze sanitarie assistenziali devono fare parte integrante di tale rete. Occorre essere coscienti che tale operazione, accanto a specifici investimenti, comporta un cambio di paradigma da parte del servizio sanitario lombardo, proteso in questi anni a valorizzare il ruolo delle reti ospedaliere anche nella gestione delle patologie croniche a livello teritoriale, ridimensionando il ruolo della medicina generale.
  • riconsiderare il dimensionamento degli ospedali, in una logica di rete, avendo il coraggio di chiudere i picoli presidi contestualmente al crescere dello sviluppo organizzativo dell’assistenza primaria. In Val Seriana, epicentro lombardo dell’epidemia, in un raggio di 40 Kilometri sono presenti bel 8 presidi ospedalieri, di cui 5 con meno di 100 posti letto. È auspicabile che gli eventi tragici di questa epidemia convincano i responsabili regionali, ma soprattutto  la popolazione e gli amministratori locali, che l’ospedale accanto a casa non sempre è un vantaggio ma talvolta può rappresentare un rischio per la salute della comunità.

 

Questo articolo è stato pubblicato anche su ArcipelagoMilano


Commenti

Il contributo di Peduzzi aggiunge importanti considerazioni all’ottimo documento di Dente. Con il contributo di entrambi viene tracciato un percorso credibile verso un ripensamento e miglioramento dei Servizi sanitari in Italia. Si parte dalla critica alla concezione ospedalocentrica e superspecialistica della sanità che trova la sua origine nel modo in cui non solo in Italia ma in tutto il mondo si è evoluta la cultura della Medicina e che ha determinato non solo le scelte politico-economiche ma la stessa mentalità dei medici sino a far considerare come normale anche la prevenzione come un rapporto diretto tra paziente e struttura ospedaliera. Ciò ha fatto si che all’ospedale venga di conseguenza attribuita la gestione delle patologie croniche che invece hanno naturalmente sul territorio le competenze e possono avere le risorse necessarie per la loro cura. Le RSA in questa prospettiva sono parte integrante della rete territoriale. Il territorio inoltre, per le patologie infettive, argomento che ha originato i due contributi, può fungere da filtro e da luogo di assistenza sia per gli aspetti di analisi epidemiologica, di prevenzione e di sorveglianza che di terapia sino al livello dei più bassi gradi di terapia intensiva. Devono certamente essere affrontati e approfonditi tre argomenti che i due contributi hanno accennato: quali specialismi devono rimanere in periferia e quali a livello ospedaliero, il ruolo l’organizzazione dei piccoli ospedali al servizio del territorio e la remunerazione e l’organizzazione dei Medici di Medicina Generale e dei Pediatri di Libera Scelta.