Emilia-Romagna: interventi per regolarizzare il lavoro di cura


Marco Arlotti | 24 Novembre 2017

L’Emilia-Romagna è una regione tradizionalmente all’avanguardia nello sviluppo delle politiche di welfare. A fronte anche di un significativo invecchiamento della popolazione, la regione è stata tra le prime a dotarsi di strumenti innovativi.1 Tra questi l’assegno di cura, un contributo economico introdotto nella seconda metà degli anni Novanta a favore della domiciliarità e del riconoscimento del lavoro di cura. Nel 2007 è stato anche istituito un fondo regionale, fra i primi in Italia, per la non autosufficienza (FRNA). La regolazione del lavoro privato di cura ha assunto una rilevanza cruciale in Emilia-Romagna soprattutto perché, anche in questa regione, i bisogni delle persone non autosufficienti ricadono sulle reti familiari, integrate dal lavoro di cura delle «badanti». I dati regionali INPS, che quantificano in circa 45.000 le badanti regolarmente iscritte, permettono di intercettare però solo una minima parte del fenomeno che rimane largamente sommerso. Il lavoro di cura «in nero», nonostante la crisi e la contrazione degli ultimi decenni, risulta infatti ancora radicato ed esteso sull’intero territorio regionale.

Quali sono state, quindi, le principali azioni di policy messe in campo dalla regione Emilia-Romagna per favorire la regolarizzazione e qualificazione del lavoro privato di cura? Innanzitutto, nell’ambito degli indirizzi ai territori per l’utilizzo delle risorse derivanti dal FRNA,2 a partire dal 2007 è stato avviato un programma specifico di attività sul tema dell’emersione e della qualificazione del lavoro di cura svolto dalle assistenti familiari. Fra le varie attività è stato previsto un rafforzamento dell’assegno di cura, attraverso l’introduzione di una maggiorazione mensile (pari a 160 euro), destinata alle famiglie con persone anziane non autosufficienti o disabili che si avvalgono di un’assistente familiare assunta regolarmente. La misura, come l’assegno di cura, è sottoposta alla prova dei mezzi (include solo le famiglie fino alla soglia max ISEE di 20.000 euro) e s’inquadra all’interno di una presa in carico individualizzata sotto la responsabilità dei servizi territoriali. Nel 2015, i beneficiari del contributo sono stati circa 3.000, per una spesa regionale di circa 4 milioni di euro. Oltre all’introduzione del contributo monetario, l’intervento della regione ha puntato a sostenere la qualificazione del lavoro di cura svolto dalle assistenti familiari. A tal proposito, sempre all’interno degli indirizzi attuativi di utilizzo delle risorse del FRNA, i distretti territoriali sono stati invitati a sviluppare programmi di intervento. Sei le linee principali:

  1. ascolto;
  2. sostegno delle famiglie e delle assistenti familiari;
  3. attivazione di momenti informativi e di consulenza;
  4. formazione e aggiornamento delle assistenti familiari;
  5. forme di tutoring attraverso operatori della rete dei servizi;
  6. integrazione e sostegno al piano individuale con la rete dei servizi.

Questi interventi, hanno registrato un grado di implementazione diffusa a livello territoriale,3 e hanno seguito una strategia di «bassa soglia, larga diffusione», cioè interventi «leggeri» di sostegno e promozione. In altre parole, è stata adottata una logica differente dalla definizione di un vero e proprio standard professionale per il lavoro di cura. Niente corsi di formazione di 100-120 ore che rischiano di essere troppo «pesanti» e non in grado di intercettare i profili e i bisogni degli assistenti familiari. Questi, infatti, anche per l’impegno gravoso e le forti limitazioni del lavoro di cura, tendono ad avere spesso aspettative temporalmente circoscritte: preferiscono accumulare risorse e far ritorno a casa oppure passare ad altri settori lavorativi. Parliamo di una categoria di per sé poco incentivata a investire sulla propria qualificazione. Per questo motivo, sono stati pensati strumenti formativi flessibili, in grado di intercettare i diversi progetti migratori e di vita. Un esempio è la creazione di opuscoli, tradotti in nove lingue, su alcuni dei temi principali che riguardano il lavoro di cura (per esempio, la relazione con la persona, l’igiene, l’alimentazione, la mobilità ecc.) e di un DVD di autoformazione con test di autoverifica su temi inerenti l’attività di cura. Infine, è in corso la sperimentazione di un sistema di formazione a distanza, che prevede la formazione di piccoli gruppi di assistenti familiari a cui viene data la possibilità di accedere a una piattaforma apposita. Sono previste schede di approfondimento ed esercizi di autoverifica a cui si combinano – secondo il metodo blended e-learning – incontri di approfondimento con esperti sociali e sanitari. Complessivamente l’attività prevede un impegno circoscritto: 12 ore di autoformazione e 12 in aula. Una volta terminato il corso viene rilasciato un certificato di partecipazione che attesta il completamento del percorso formativo.

Nel complesso, come può essere valutato l’impatto di queste iniziative e quali le indicazioni principali che emergono sul versante della regolarizzazione e qualificazione del lavoro privato di cura? Innanzitutto, le azioni formative e la strategia «bassa soglia, larga diffusione» hanno permesso di allacciare un rapporto con i sistemi di cura, fornendo strumenti di qualificazione e sostegno delle relazioni fra assistenti familiari e famiglie, che possono limitare i rischi di isolamento e solitudine. In quest’ottica, dunque, risulta cruciale avviare programmi che non «appesantiscano» troppo la formazione ma che al contempo la focalizzino su alcuni elementi centrali dell’attività assistenziale, anche attraverso l’utilizzo di metodologie miste (a distanza e in presenza). L’integrazione all’assegno di cura ha costituito – ancor più durante la crisi – un sostegno economico importante ai costi sostenuti dalle famiglie. Tuttavia ciò ha riguardato in larga parte quelle famiglie in cui era già presente un’assistente familiare in regola. Questo significa che l’impatto della misura in termini di emersione è stato limitato, consolidando nella sostanza «scelte già fatte». Il nodo di fondo rimane il «cuneo» che separa i costi dell’impiego regolare da quello sommerso: un gap difficilmente colmabile da un contributo di 160 euro, ancor più fintantoché la principale misura nazionale di sostegno per la non autosufficienza, cioè l’Indennità di Accompagnamento, così come la limitatezza degli incentivi fiscali,4 tendono ad alimentare strutturalmente le convenienze reciproche che famiglie e assistenti familiari hanno nel definire assetti di cura irregolari e sommersi.

  1. Questa nota di approfondimento è stata sviluppata a partire dalle informazioni raccolte dall’autore attraverso interviste a testimoni privilegiati. A tal proposito si ringraziano in particolare il Dott. Fabrizio e la Dott.ssa Puglioli, area sociale della Regione Emilia-Romagna, per la disponibilità e il tempo dedicato. Ovviamente, quanto riportato rimane di esclusiva responsabilità dell’autore.
  2. DRG 1206/2007: “Fondo regionale per la non autosufficienza. Indirizzi attuativi della delibera n. 509/2007”; DGR 2375/2009
  3. Al 2015, solo 5 ambiti distrettuali su 38 non avevano elaborato queste iniziative.
  4. A questo proposito, si ricorda che le spese sostenute per gli addetti all’assistenza personale nei casi di non autosufficienza, possono essere detratte (al 19%) fino ad un importo massimo di 2.100 euro, solo se il reddito complessivo non supera i 40.000 euro. Inoltre, per i contributi previdenziali e assistenziali versati per gli addetti ai servizi domestici e familiari (per esempio, colf, baby-sitter e assistenti delle persone anziane), l’importo massimo deducibile è di 1.549,37 euro.