Regolarizzare il lavoro di cura: il caso dell’Austria


A cura di Costanzo RanciMarco Arlotti | 24 Novembre 2017

L’Austria è un paese che presenta diversi tratti comuni con l’Italia. La principale misura di sostegno per la non autosufficienza è, infatti, un trasferimento monetario universale («Pflegegeld») molto simile all’Indennità di Accompagnamento. Si tratta di una soluzione senza vincoli di utilizzo e differenziata nell’importo in base a sette livelli di intensità assistenziale: si va da 157 a 1,689 euro per il livello più alto. In un contesto di scarsa presenza di servizi, si è assistito inoltre a un forte sviluppo del mercato privato, prevalentemente sommerso e costituito da lavoratori straniere provenienti dai vicini paesi del Centro-Est Europa che è stato, tuttavia, oggetto di importanti interventi di policy volti a favorire l’emersione strutturale del lavoro irregolare di cura. Ne parliamo con August Österle, fra i massimi esperti a livello internazionale di politiche di cura per la non autosufficienza e docente di politica sociale all’Università di Vienna.

 

Professore, ci può descrivere l’intervento in Austria per regolarizzare il lavoro privato di cura?
«Il cambiamento principale è avvenuto nel 2007. Dopo che i media portarono alla luce una serie di scandali. C’erano famiglie che facevano un utilizzo irregolare di lavoratori stranieri non versando l’apposita contribuzione sociale. Così il governo federale intervenne cercando di offrire un’opzione per far emergere il lavoro di cura sommerso. Prima della regolarizzazione, secondo le stime, i lavoratori impiegati irregolarmente erano circa 30.000. Dopo la riforma, la quota di lavoratori regolarizzati è passata da 13 mila del 2008 a 44.000 nel 2013, andando quindi ben oltre la quota di irregolari stimata nel periodo pre-riforma. Più nello specifico, si è definito un nuovo profilo occupazionale, quello del lavoratore della cura h24 («Personenbetreuung») impiegato direttamente presso le famiglie, con due opzioni: lavoratore subordinato (alle dipendenze delle famiglie o tramite agenzie di intermediazione) e lavoratore autonomo. Quest’ultima possibilità è stata quella più utilizzata: ad oggi, praticamente, tutti i rapporti di lavoro di impiego di lavoratori stranieri presso le famiglie avvengono in forma autonoma».
Quali sono stati i vantaggi principali che hanno spinto a favore della regolarizzazione?
«L’opzione del lavoro autonomo ha diversi vantaggi. Il primo riguarda innanzitutto la flessibilità, che ha permesso alle famiglie di mantenere un assetto di cura h24 e sette giorni su sette, attraverso l’impiego – generalmente – di due lavoratori stranieri, con una rotazione ogni due settimane facilitata dalla vicinanza dei paesi di origine. Ovviamente tutto questo è molto più difficile nel caso di un lavoratore alle dirette dipendenze, a causa di una regolazione normativa più restrittiva in termini di orari, pause, vacanze ecc. Il secondo vantaggio è monetario: nel caso dei lavoratori autonomi non è previsto, infatti, il salario minimo, mentre la contribuzione sociale obbligatoria (che copre vecchiaia, infortuni, ma non disoccupazione) è più bassa».

 

C’è stato anche un incentivo monetario ad hoc che ha agevolato le famiglie nel regolarizzare i rapporti di lavoro?
«È stata introdotta dal governo una nuova misura monetaria per sostenere le famiglie nella copertura dei costi extra derivanti dall’assunzione regolare di un lavoratore straniero, sia alle dirette dipendenze che come autonomo. Per esempio, per il lavoro autonomo il contributo massimo mensile è di 275 euro. Tuttavia, stante l’assetto più diffuso che vede il coinvolgimento di due lavoratori stranieri (cfr. sopra), il contributo complessivo raggiunge le 550 euro mensili. La misura è sottoposta alla prova dei mezzi: oltre i 2.500 euro mensili di reddito netto per il beneficiario, è prevista una decurtazione pari alla quota eccedente tale soglia (es. nel caso di un reddito mensile di 2.600 euro, cioè eccedente 100 euro la soglia, l’importo di 550 euro cala a 450 e così via). Il contributo viene applicato solo ai casi più gravi (cioè con certificazione a partire dal terzo livello di gravità per l’accesso alla «Pflegegeld», oppure con demenza anche a livello inferiore)».

 

Sono previsti criteri specifici di qualificazione per il lavoro, iscrizione ad albi ecc.?
«I criteri sono molto generali: è prevista solo un’iscrizione formale alla Camera di Commercio, nulla di più. Inoltre, la contrattualizzazione sovvenzionata prevede alcuni requisiti professionali minimi, come ad esempio l’aver svolto un corso di formazione attinente il lavoro di cura, oppure dimostrare di aver svolto in precedenza un lavoro di cura professionale presso le famiglie per almeno 6 mesi».

 

Per concludere, a suo parere, qual è l’insegnamento principale che emerge dal caso austriaco rispetto agli interventi di regolarizzazione del lavoro di cura?
«Gli interventi di policy sono riusciti nell’obiettivo di regolarizzare il lavoro di cura attraverso lavoratori stranieri, mantenendo l’attrattività e l’accessibilità di tale assetto per le famiglie. L’opzione del lavoro autonomo ha facilitato la rotazione dei lavoratori e la copertura h24 e sette giorni su sette dei bisogni, permettendo inoltre ai lavoratori l’accesso al sistema di protezione sociale. Allo stesso tempo, tuttavia, sono rimaste intatte alcune problematiche di fondo che attengono tipicamente gli assetti diretti di cura privata presso le famiglie, per esempio in termini di vulnerabilità dei lavoratori, carichi eccessivi di lavoro ecc.. Inoltre, la definizione degli standard professionali è stata minima. Insomma l’insegnamento principale che sembra emergere dal caso austriaco è che le policy di regolarizzazione devono essere comunque combinate con politiche che affrontino adeguatamente il nodo della qualità del lavoro di cura».