Ne usciamo?


Pippo Ranci | 2 Aprile 2020

Dall’epidemia usciamo di sicuro, come e quando non lo so. E intanto si pone la domanda se ne usciamo in termini di sopravvivenza economica e di coesione sociale. Su questo cerco di fare il punto in base alle letture di questi giorni che mi sembrano più affidabili.

 

Una grossa perdita di reddito è certa. Oggi è stimata attorno al 5% del prodotto (PIL) o del reddito nazionale (approssimativamente uguali, la differenza sono i redditi guadagnati all’estero). Probabilmente sarà molto maggiore quando la misureremo per l’anno intero: forse il 10%.

Fosse distribuita ugualmente su tutti, anche una perdita del 10 o 15% sarebbe un danno limitato e sopportabile: si rinvia qualche spesa non urgente, si usano i risparmi, si può dire che si prende a prestito dal proprio futuro. Invece sarà concentrata: molto maggiore sui precari, sui dipendenti di imprese che falliscono o comunque licenziano, sugli autonomi.

La perdita, che non si può evitare, si dovrebbe redistribuire. In parte ciò avviene all’interno delle famiglie e attraverso le sottoscrizioni volontarie a favore degli enti assistenziali. Invece una redistribuzione forzata nella comunità nazionale, cioè tassare i patrimoni per erogare sostegni pubblici, è sconsigliabile.

Lo si fece nel 1946 dopo una guerra che aveva distrutto il paese e creato una disponibilità a ben altri sacrifici, quando i patrimoni non si potevano spostare all’estero ed erano investiti in una finanza semplice e controllata. Eppure anche allora ci vollero dieci anni per venire a capo dei ricorsi che molti contribuenti fecero contro gli accertamenti del fisco.

Si potrebbero anche erogare sussidi ai più colpiti tassando ampiamente i redditi di tutti, ad esempio aumentando l’IVA, ma l’effetto immediato sarebbe di far diminuire la spesa complessiva e quindi aggravare la recessione. Quindi alla comunità nazionale non resta che erogare sussidi per sostenere i redditi colpiti prelevando dal futuro, cioè indebitandosi.

 

Oggi lo sforzo pubblico è orientato a (1) sostenere i redditi oggi, (2) salvare le imprese per il lavoro domani, (3) avviare programmi credibili di rimedio, rafforzando subito i presidi sanitari e accelerando gli investimenti pubblici e gli incentivi a imprese che crescono.

Gli Stati Uniti hanno deciso una maggior spesa pubblica pari al 10% del PIL. Decisioni simili, un po’ meno pesanti, sono state prese in alcuni paesi europei. Il Governo italiano ha deciso di spendere inizialmente molto meno (il primo decreto vale un po’ meno del 2% del PIL, che in tempi normali sarebbe già una spesa notevolissima) perché eravamo già da tempo sotto sorveglianza dei creditori, dei partner europei e delle istituzioni europee. Ma una volta verificato che i sorveglianti, consapevoli della situazione, non fanno ostacolo, si può immaginare che al primo seguano altri provvedimenti di spesa. E si deve prevedere un peggioramento automatico, senza bisogno di decisioni del Governo, come un calo delle entrate fiscali e un aumento di molte spese come i sussidi di disoccupazione. Il bilancio dello Stato potrebbe chiudere il 2020 con un deficit di oltre il 10% del PIL.

 

Sarà spesa finanziata con nuovo debito. La Banca centrale europea si è dichiarata pronta ad acquistare titoli emessi dallo Stato italiano per un importo enorme, 220 miliardi (12% del PIL, per gran parte nuovo debito ma anche rinnovo di titoli in scadenza). In questo quadro, anche altre banche e fondi internazionali acquisteranno facilmente titoli italiani. Il Governo e le imprese hanno uno spazio di manovra che non potremmo neanche sognare se fossimo fuori dall’Euro.

Il nostro debito pubblico sicuramente salirà. A fine 2019 stava al 136% del PIL e, secondo il programma del Governo, alla fine del 2020 il debito pubblico avrebbe mantenuto all’incirca lo stesso rapporto con il PIL del 2020. Invece con un deficit nel bilancio dello Stato pari, per ipotesi, al 10% del PIL, il debito a fine 2020 salirebbe al 146% del PIL, se questo fosse fermo al livello 2019, ma poiché nel frattempo il PIL potrebbe calare del 10%, il rapporto debito/PIL a fine 2020 schizzerebbe oltre il 160%. È un calcolo ipotetico basato su numeri semplici, solo per farci un’idea.

 

L’incertezza ora riguarda quanta parte del nuovo debito sarà garantita dalle istituzioni europee o dall’insieme degli Stati dell’Euro. Questo è importante sia per il costo, perché il tasso d’interesse è più basso se il debitore è più sicuro, sia per la tranquillità futura riguardo alle rate di restituzione. Per questo, autorevoli economisti stanno proponendo che il debito sia finanziato almeno in parte con prestiti a lunghissima durata e con obbligazioni emesse da istituzioni europee.

Su quanto l’intera Unione europea parteciperà al rischio del nuovo indebitamento è in corso una trattativa tra il Sud Europa (Italia e Spagna, con interesse di Grecia e Portogallo e qualche incertezza francese) e il Nord Europa. Alla resistenza del Nord non è saggio esprimere ostilità, confermeremmo l’idea che noi spendaccioni stiamo chiedendo qualcosa a loro risparmiosi nel nostro interesse, invece va messo in evidenza che è interesse comune europeo uscire dalla crisi e che solo con un’azione comune se ne esce. Qualche decisione dovrà essere presa entro metà aprile.

 

Come sarà possibile vivere con un debito al 160% se eravamo sotto pressione già quando stava al 130%? Il livello del debito risulta da quanto si è speso in passato e costituisce un segnale per l’oggi, mentre il criterio decisivo è la capacità di un paese di sostenersi nelle situazioni normali senza fare altro debito e anzi riducendo il debito contratto nelle circostanze straordinarie del passato. Meglio un debito al 160 ma in lieve discesa che uno al 130 in salita. Importa anche la qualità del debito, cioè ad esempio prestiti legati alla realizzazione di specifici investimenti e non per coprire stipendi e pensioni. Quindi bisogna fare, proprio mentre si aumenta il debito, un’operazione di risanamento del funzionamento ordinario.

 

Ad esempio, la vicenda del Coronavirus ha messo in evidenza lo scarso coordinamento tra Stato e Regioni, la difficoltà italiana a emanare regole chiare e stabili. Questi malfunzionamenti sono gli stessi che ostacolano lo sviluppo economico, quindi questa è l’occasione per rimuoverli.

Altro esempio: si sta vedendo l’utilità della diffusione di tecniche digitali, e della capacità di usarle, con lo smart working, la scuola online, l’assistenza medica e psicologica da remoto, il sostegno morale agli anziani isolati. La digitalizzazione è anche un indice di capacità di sviluppo economico sul quale l’Italia è indietro: l’indice europeo DESI (digital economy and society index) vede l’Italia ventiquattresima su 28 Stati, al livello 44 quando la media UE è al 52,5 e la Finlandia al 70. Il ritardo va colmato in fretta.

 

La stagione dell’emergenza è in tutti i paesi una stagione di consenso: ci si stringe attorno alle istituzioni. Il mega-pacchetto di spesa negli Stati Uniti è stato votato in tempi da record da repubblicani e democratici assieme. In Israele la crisi di Governo ormai cronica, dopo tre elezioni in un anno combattute tra due schieramenti di pari peso, si è chiusa con un accordo.

 

Il rischio maggiore per l’Italia è che venga meno la già fragile coesione sociale. Nelle aree di maggior sofferenza si diffonde l’esasperazione e spuntano cenni di rivolta. Agli imprenditori sull’orlo del fallimento le mafie offrono sostegno, per impadronirsi delle loro imprese.

Dai guai usciremo, purché regga il patto sociale.