“Quot capita tot sententiae”


Cesare Cislaghi | 30 Aprile 2020

È ormai il momento in cui tutti, e ahimè anche noi, vogliono dire la loro e tra i tanti, ad esempio, mi riferisco a Luca Ricolfi su La Stampa e a Paolo Mieli a GR24.

L’opposizione si “diverte” a dire sempre il contrario del Governo con una ciclicità di contraddizioni disarmanti: apri tutto, chiudi tutto, apri tutto … ecc. Si critica il Governo di non decidere e di non dire cose chiare e poi lo si accusa di decisionismo e di indicazioni poco flessibili. Si dice che la sanità non deve essere affidata alle Regioni ma centralizzata e poi si criticano misure omogenee per tutto il paese.

L’epidemia di sicuro ci ha presi tutti impreparati e abbiamo riversato nel dibattito e nei comportamenti tutte le nostre contraddizioni ampliandole. Cerchiamo, seppur sia difficile anche per noi stessi, di fare un po’ di chiarezza, all’annuncio di una fase due che sin dal minuto successivo alla conferenza stampa di Conte ho definito, peraltro con mio sollievo, fase uno e mezzo.

 

Aperture e chiusure

Partiamo da una considerazione inconfutabile: l’unica misura per bloccare completamente il diffondersi dell’epidemia sarebbe il lockdown completo, simile a quello attuato a Wuhan o addirittura più rigido ancora, misura ovviamente non attuabile perché comporterebbe inaccettabili rischi di sopravvivenza.

È comunque altrettanto certo che qualsiasi “apertura” aumenta, seppur in misura diversa, il rischio del contagio e quindi anche il numero dei malati, dei malati gravi, dei decessi; non esiste pertanto una possibile apertura in completa sicurezza. È altrettanto certo che qualsiasi “chiusura” aumenta, seppur in misura diversa, molti altri rischi di diversa natura, economici, sociali, psicologici, ed anche aumenta il rischio di crescita di altre malattie e di altri decessi. Le aperture possono magari considerarsi in sè quasi sicure, ma aumentando la circolazione delle persone aumentano comunque ed inevitabilmente i loro possibili contatti e quindi le probabilità di contagio. La soluzione non può quindi essere che quella di scegliere le misure meno rischiose sia per le aperture sia altrettanto per le chiusure e soprattutto si debbano contemperare le une alle altre per raggiungere il risultato complessivo migliore.

 

Libertà, diritti, democrazia

Si dice poi, come dice Ricolfi, che sia in pericolo la democrazia, o come dice Mieli che sia in pericolo il rispetto della dignità umana.

Mi sembra che il dibattito sulle libertà e sui diritti costituzionali sia molto dibattuto e non è qui il luogo dove dibatterlo: non è possibile però pensare di poter godere tutti di tutto; libertà e diritti devono essere contemperati tra loro e nel rispetto di noi stessi ma anche del nostro prossimo. Libertà di culti, libertà di impresa, libertà di movimento, diritto all’istruzione, all’arte, allo sport, al riposo ed al divertimento … sono tutte libertà e diritti inalienabili, ma non si possono esigere senza limitazioni se questo crea dei gravi rischi alla salute di tutti, salute il cui diritto è anch’esso costituzionalmente affermato.

 

Strategie di contrasto dell’epidemia

Bisogna allora chiarire che le possibili strategie di contenimento dell’epidemia che vengono dibattute possono essere sintetizzate nelle seguenti due:

  1. La prima strategia ipotizza che il virus non possa essere debellato se non con un vaccino oppure quando si raggiunga una immunità collettiva e quindi la strategia deve limitarsi solo al rallentamento della diffusione del contagio al solo fine di garantire la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale ed in particolare delle strutture di terapia intensiva.
  2. La seconda strategia, molto più ambiziosa, ritiene che non ci si possa limitare ad un contenimento in attesa del completamento dei contagi e quindi si debba cercare di ridurre al minimo da subito gli effetti dell’epidemia in termini di decessi e di eventi patologici gravi, anche quelli non clinicamente causati dal coronavirus.

 

Chi per cultura, sensibilità, interesse valorizza maggiormente gli aspetti economico sociali insiste perché venga adottata la prima strategia, chi invece ritiene che la difesa della salute sia preponderante insiste perché si scelga la seconda, pur considerando necessario cercare di non deprimere eccessivamente i settori essenziali della società.

 

Le informazioni disponibili

Tante volte, e ancora adesso, ho criticato il sistema di raccolta delle informazioni ed ho chiesto, per lo più inascoltato, che venissero introdotte delle correzioni per permetterci di capire meglio e quindi di decidere meglio informati. Ma non è vero che si sappia poco o nulla, e che l’incertezza sia globale.

 

Occorre chiarire innanzitutto la differenza tra malattia conclamata e malattia “silente”. Un esempio in campo oncologico: negli anno ’70 a Trieste c’era un anatomopatologo, Giarelli, che seguendo un comportamento diffuso nella sanità di oltralpe eseguiva percentuali molto elevate di autopsie scoprendo cosi nei deceduti molte neoplasie prima clinicamente non diagnosticate. Per questa ragione il tasso di neoplasie a Trieste era molto elevato anche perché non veniva rispettato il principio per cui le diagnosi autoptiche non devono condizionare le schede di decesso tranne nei casi specifici di chiarimento di un dubbio diagnostico. Si potrebbe allora ritenere che la percentuale di portatori di alterazioni neoplastiche sia quasi il doppio di quella dei malati di cancro. Così similmente si può ragionare anche per le patologie infettive e ritenere quindi che il numero degli infetti non sia lo stesso del numero dei malati.

 

La definizione quindi di “caso” di contagiato da coronavirus non può prescindere dal risultato positivo di un test con tampone e quindi conseguentemente anche dall’estendersi o meno della strategia di somministrazione dei tamponi alla popolazione in funzione dei loro sintomi, gravi, lievi, assenti. Non possono rientrare quindi nella definizione di “caso” i sospetti diagnostici per i quali non sia stato effettuato un tampone, come ahimè è successo, nel momento di maggior crisi, per molti decessi avvenuti a domicilio o subito poco dopo il ricovero.

La prevalenza clinica puntuale

L’ottica informativa inizialmente adottata dal Ministero della Salute, e per esso dalla Protezione Civile, era il controllo del bisogno assistenziale per valutare la sostenibilità delle strutture ospedaliere ed in particolare dei letti e del personale di terapia intensiva. Per questo inizialmente si sono rilevati i positivi quasi esclusivamente negli accessi ospedalieri e con lo scopo di confermare la diagnosi e quindi di separare i pazienti infetti da quelli che non lo erano. In termini tecnici questa informazione si chiama prevalenza clinica puntuale, cioè numero di soggetti contemporaneamente positivi, numero che cresce per ogni nuovo caso ma diminuisce per ogni guarito e ahimè anche per ogni deceduto.

 

L’incidenza nella popolazione

L’informazione invece necessaria per controllare la diffusione dell’epidemia è l’andamento del numero dei nuovi casi giorno per giorno, informazione ricavabile dai dati della Protezione Civile e che si ritiene abbastanza affidabile anche se risente di una ciclicità settimanale nell’effettuazione dei test e nella trasmissione dei dati. Anche in questo cssdo comunque ci si riferisce, e non potrebbe essere diversamente, ai soli “casi”, cioè ai soli soggetti che hanno avuto un. tampone positivo.

 

Positivi, malati, infetti, deceduti

Quale sia poi il rapporto tra il numero dei positivi al tampone, conosciuto, ed il numero dei contagiati malati o addirittura degli infetti asintomatici non è purtroppo possibile saperlo con certezza. Nei primi giorni dell’epidemia, riferendosi a stime sui dati cinesi, si pensava che su cento infetti ce ne fossero 80 senza e 20 con malattie conclamate, e di questi almeno 10 ricoverati di cui 5 bisognosi di terapia intensiva e 2 destinati a morire.

Se analizziamo le serie di dati fornite dalla Protezione Civile possiamo verificare che c’è una forte coerenza tra il numero dei nuovi dati e il numero dei decessi certificati come mostrano i grafici.

 

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Dal 24 febbraio ad oggi il numero dei decessi è pari al 14% del numero di casi di cinque giorni prima. E i dati individuali elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità confermano che la letalità nei casi positivi certificati risulta del 13% e alcune statistiche regionali, come quelle della Regione Emilia Romagna, ci confermano che mediamente un decesso avviene dopo cinque giorni dalla notifica al Ministero della positività.

Ricoveri e isolamento famigliare

L’attività assistenziale è stato l’aspetto che ha assorbito i maggiori sforzi organizzativi. I ricoverati in Terapia Intensiva, nella giornata peggiore, sono stati 4.068, cui si aggiungono 29.010 altri posti letto occupati da malati di Covid-19 per un totale giornaliero di ricoverati che ha raggiunto i 33.004 ricoverati. I contagiati, malati o asintomatici, in isolamento domiciliari, a differenza dei ricoverati, sono ancora in crescita ed al 27 aprile sono 83.619.

 

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La diagnostica tramite tampone

 Sull’attività preventiva ci sono state diverse discussioni soprattutto sulla necessità di sviluppare maggiormente la diagnostica tramite tampone non solo per i sintomatici gravi ma anche per soggetti asintomatici e soprattutto per coloro che possono considerarsi a maggior rischio come gli operatori sanitari. L’esecuzione di tamponi sono comunque in continuo aumento. I tamponi effettuati al 27 aprile sono stati 1.846.934 con consumi giornalieri che hanno superato i sessantamila.

Il numero di tamponi però non descrive direttamente l’attività diagnostica dei nuovi casi perché per un solo soggetto vengono effettuati più di un tampone e si aggiungono al numero dei tamponi anche quelli effettuati per verificare la negativizzazione dei pazienti clinicamente guariti. Dal 19 aprile viene però consegnato il numero di nuovi soggetti testati per verificarne il contagio e quindi si può verificare quale ne risulta la percentuale di positività che il 18 aprile era del 19% e il 27 aprile del 16% differenza quasi certamente attribuibile ad una estensione dei test anche a soggetti con minor sintomatologia.

 

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Ci si chiede spesso se l’aver eseguito più tamponi abbia o meno ridotto il dilagare dell’infezione. Non è ancora possibile dare una risposta a questo quesito anche se esaminano i dati regionali per tasso di diagnosi con tampone effettuate e percentuale di positività non sembra osservarsi una relazione chiara.

 

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La costruzione di possibili scenari sul volume dell’epidemia

Fin qui possiamo considerare queste informazioni certe ma insufficienti, e per integrarle, in attesa di informazioni più affidabili, possiamo cercare a costruire degli scenari della diffusione epidemica. Sarà possibile a breve sapere quale sia nella popolazione la percentuale di contagiati appena sarà ultimata l’indagine sierologica a carico dell’Istat. Al proposito si tenga comunque bene in mente che allo stato attuale i test sierologici possono servire per fornire una utile misura della prevalenza di contagio nella popolazione ma non possono dare alle persone una una “patente di immunità”.

Ripartendo dal numero di decessi e considerando il differenziale dalle medie del numero di morti degli anni precedenti nelle stesse settimane, possiamo ipotizzare (ipotizzare non dimostrare) che i decessi da coronavirus siano il doppio di quelli oggi dichiarati in funzione dell’essere stati testati prima come positivi.

Se la letalità fosse il 2% dei contagiati, significherebbe che i 50.000 decessi potrebbero corrispondere a 2.500.000 di contagiati, quindi pressappoco un abitante ogni venticinque! E di questi alcuni si sarebbero già negativizzati e la più parte ancora no.

La prudenza nell’avvio delle misure di apertura dal lockdown

Allo scenario prima abbozzato non diamo troppo del valore di precisione ma solo usiamolo per farci una idea del possibile ordine di grandezza della diffusione del contagio utile nella decisione di passare alla cosiddetta fase due.

Nelle scelte di avviare nuove aperture sono due i principi guida essenziali: il primo è quello di evitare di riaprire tutte le attività nelle quali possono verificarsi degli assembramenti, che creano il rischio maggiore di ripresa dei focolai epidemici, e anche di ridurre le attività che possono indirettamente favorire anch’esse degli assembramenti nei trasporti, nelle strade, nei locali, ecc.

Il secondo principio è il criterio di contemperare l’impatto dei rischi che possono essere prodotti dalle aperture con gli altri rischi che potrebbero crearsi se le attività fossero lasciate ferme.

Non esageriamo con il tiro al bersaglio

Mi sia permesso in chiusura di notare che sarebbe necessario che ciascuno di noi non esagerasse con il gioco del tiro al bersaglio. È naturale e fisiologico che quando la paura diminuisce aumenta la rabbia per tutto ciò che si è perso e sofferto e aumentano i tentativi di individuare dei colpevoli qualunque siano, veri o no.

Con tutte le difficoltà create da una inevitabile impreparazione, il sistema Italia ha retto e l’attuale prudenza non può che essere apprezzata. È anche molto positivo il rispetto delle competenze medico scientifiche che non era così facile da prevedere in un Governo dove la presenza di mentalità tipo no-vax o di sfiducia verso le caste, anche quelle scientifiche, poteva far temere diversamente.


Commenti

Bravo Cesare: si vede che provieni dalla migliore scuola di statistica medica mai esistita in Italia.