Le parole armoniose: la vicinanza nel tempo del distanziamento sociale


Cristiana Pregno | 9 Giugno 2020

[…] ma oggi vi sono compiti più urgenti che non disporre le parole in modo armonioso (Proust).

 

Così il signor di Norpois al padre del Narratore, commentando l’arte che ha come fine solo se stessa1. È vero, c’è tanto di urgente da fare, e da ricostruire, ed il pragmatismo è necessario, ma le parole armoniose hanno una loro funzione, anche adesso, e il loro buon uso può portare a risultati importanti.

Essere distanti e vicini è un ossimoro, una figura retorica, ma può diventare una realtà, se giocata bene.

Le riflessioni che seguono sono un tentativo di applicazione di una figura retorica nel lavoro sociale.

 

Gli operatori sociali guardano le persone negli occhi, stringono loro la mano, vanno a trovarli a casa, si siedono accanto a loro, per poterle consolare, o vivono con loro, nelle comunità, e condividono ogni momento della giornata. Tutto questo, oggi, deve essere rimodulato, affinché tutela della salute pubblica, sicurezza dei lavoratori ed interazione umana si compenetrino. Il distanziamento sociale è l’unica misura efficace per la prevenzione del contagio da Covid-19: scenario inedito, mai praticato prima, che costringe a rimodulare il concetto di vicinanza.

Per ragionare sul distanziamento sociale e la vicinanza userò come esempio due strumenti del servizio sociale: il colloquio e la visita domiciliare.

 

Una premessa: il virus non è selettivo, colpisce tutti indifferentemente. Poi c’è chi guarisce e chi muore. L’esperienza dello stare accanto a chi ha subito un lutto si è ampliata, in questi giorni, soprattutto per chi lavora con gli anziani. È ormai un elenco lunghissimo di nomi (non numeri, nomi) e abbiamo dovuto imparare a fare le condoglianze per telefono, a stare accanto pur essendo lontani, a parlare con degli sconosciuti, perché succede anche questo: non è che non ci siano malati tra gli operatori, quindi qualcuno li sostituisce e questo qualcuno cerca di trasmettere tutto il calore che può, attraverso una cornetta ed un cavo, ad una persona che non ha mai visto.

I media ci raccontano degli infermieri che cercano di mettere in contatto i malati con i loro parenti, con le videochiamate, per far salutare i figli alle madri morenti: sono gesti di immensa pietà, di una umanità che esprime la sua più nobile essenza.

Anche gli operatori delle RSA si adoperano per rendere la solitudine e la distanza meno angosciante e per fortuna esiste una tecnologia che lo consente. La tecnologia è un mezzo, scriveva Galimberti2, nel 1999, e non ha fini suoi, i fini li mette l’uomo.  La tecnologia consente vicinanze impensabili in passato e le tecnologie online possono essere usate per fornire reti di supporto sociale e senso di appartenenza3, sempre tenendo conto che l’alfabetizzazione digitale non è uguale per tutti, e che ci sarà sempre bisogno, per alcuni, di un tramite umano per comunicare attraverso la macchina.

In quello che si farà, d’ora in poi, dovremo tenere a mente la lezione di Galimberti, l’uso virtuoso della tecnologia. E migliorare, magari passare alle videochiamate, noi ci confrontiamo ancora con i Nokia, con i Brondi con i tasti grandi, con i telefoni fissi.  Insomma, si fa quel che si può con i mezzi che si hanno – i telefoni personali degli operatori in smart working, per esempio.

Inimmaginabile sino a poco tempo fa, un uso così esteso dello smart working per alcuni lavoratori del sociale. Il che ha comportato rapidissime riorganizzazioni e trasformazioni del quotidiano lavorativo, non facili per la scarsità di mezzi, per la perdita del confronto con gli altri, per la natura stessa del lavoro.

 

Riflettere su tutto ciò consente di dare visibilità al valore di questa attività che in molti si sta facendo, il colloquio telefonico, che non è una telefonata di cortesia, è un contatto a cui si collega la specificità del colloquio, cioè un’interazione con uno scopo4.

Parliamo con molti anziani e parenti di anziani, ed alcuni non li abbiamo mai visti, in queste settimane: parliamo della paura, degli ausili che non arrivano, del presente e del futuro, dei vari servizi sospesi, di attese che si prolungano, per le visite, per l’invalidità, dei soldi che non bastano per fare la spesa, e anche di quando ci potremo conoscere e bere un caffè insieme. È tutto molto concreto, e vivo, nonostante ci siano soltanto le sfumature della voce, le pause, le parole sospese nell’aria, e nient’altro. Operatori sociali come esperti di dizione? Non proprio, ma scegliere quali vocaboli usare e come articolarli, in uno spazio nudo, senza gesti a enfatizzarli, è comunque una competenza. Le parole armoniose.

 

La visita domiciliare richiede un discorso a parte. Chi lavora con gli anziani sa che la visita domiciliare per comprendere e capire e cercare di costruire una relazione è ineludibile. È essenza del lavoro sociale con gli anziani. Non è un atto isolato, va ripetuta e ripetuta, per gettare le basi di qualcosa, un ponte tra le persone, e continuarne la manutenzione. Il Covid-19 costringe a ripensarla.

La casa è un luogo speciale, dove si vive, dove alcuni lavorano per un tempo breve, dove altri lavorano per molte ore. C’è chi non usa la visita domiciliare come strumento professionale, ma usa lo stesso spazio, la casa, come luogo di lavoro. Il rimando è d’obbligo a quell’attività che non si è mai interrotta, neppure nei giorni più bui, cioè l’assistenza a domicilio svolta da operatori sociosanitari e da assistenti familiari.

È un lavoro difficile, e segreto, perché il luogo di lavoro è un’abitazione, quasi mai vi sono dei colleghi, e le uscite all’esterno sono brevi e finalizzate: la farmacia, il mercato, l’ambulatorio del medico; e si deve fare in fretta, per non sottrarre tempo all’assistenza della persona. E quello che accade dentro le mura domestiche non è visibile, nessuno lo sa, tranne gli interessati, e pochi congiunti.

 

Del lavoro segreto si deve parlare ad alta voce: un piccolo passo in questa direzione: l’art. 85 del D. L. 34 del 19.5.2020 ha istituito l’indennità per i lavoratori domestici: €500 mensili per aprile e maggio. La sua importanza, forse più simbolica che economica, è un segno di attenzione verso il lavoro di cura, un passaggio verso l’uscita dall’invisibilità. E parlare dei lavoratori domestici significa parlare dei non autosufficienti, dei disabili, dei caregiver. Cioè di persone che presentano stadi diversi di fragilità, ma tutte degne di attenzione, e di politiche dedicate, e di scelte organizzative congruenti con i loro bisogni.

Il riconoscimento della dignità delle persone passa anche attraverso il riconoscimento della specificità del lavoro dei servizi alla persona e, quindi, attraverso la dotazione di risorse, formative e strumentali, per i professionisti che lavorano nell’ambito. Il documento tecnico dell’Inail di aprile 2020 classifica i vari lavori secondo la loro esposizione al rischio di contagio, combinando diversi elementi (esposizione, prossimità, aggregazione) e colloca la sanità e l’assistenza sociale nella stessa classe di rischio: alto. Ora, è evidente che ogni settore lavorativo dovrà declinare gli specifici protocolli per far agire in sicurezza i lavoratori e per proteggere i cittadini che usufruiscono di quella prestazione, e che questi protocolli saranno diversificati nelle varie categorie, ma l’analisi dell’Inail consente, quantomeno, di considerare che il lavoro sociale ha bisogno di specifiche norme di sicurezza.

 

La visita domiciliare necessita, quindi, di una regolamentazione apposita. È cuore ed essenza del lavoro con gli anziani, non è una attività marginale. Serviranno le distanze di sicurezza nell’abitazione? Quali dispositivi saranno necessari? Quale formazione per i lavoratori? E intanto che ci si chiede quale conformazione dare alla visita domiciliare, si può anche ragionare su quale impianto organizzativo sarà necessario per rispondere alle emergenze sociali che spesso richiedono, come evidenzia Mirri su questo sito5, accessi al domicilio? Il Pronto Intervento Sociale avrà mezzi e struttura, in modo uniforme, nel nostro paese?

Sono domande per le quali il comparto sociale dovrà cercare una risposta, nella consapevolezza che la sfida inedita del Covid-19 non consente certezze assolute, ma aggiustamenti progressivi e prove ed errori.

 

In ultimo, qualche considerazione sul rapporto tra servizi e società. In un recente articolo apparso su Welforum.it, evidenziando correlazioni tra passato e presente, Sau6 scrive “Le maglie del bisogno si dilatano. Esattamente come Grossman, ci ritroviamo a confermare come i singoli professionisti non bastino, servono più forze che vanno formate e/o organizzate e animate per risposte strutturate di aiuto”.

Non si può che condividere questa affermazione, e riprenderla, e farla diventare uno sfondo costante dell’azione professionale. Incontriamo tanta sofferenza, in questi giorni, ma anche tanta solidarietà, spontanea, semi organizzata, altamente strutturata. Non si può fingere che non stia accadendo nulla: coloro che oggi sono i segnalanti del singolo anziano (il barista che prima di chiudere chiama la Protezione Civile per dire che non potrà più dare i pasti caldi a Mario, che ha 90 anni e si preoccupa per lui e la panettiera che segnala la signora Natalina ai servizi sociali) potranno diventare dei contatti sul territorio, persone che noi, operatori, andremo a ringraziare, innanzitutto, sentinelle della comunità, in un rapporto diverso con le istituzioni, non più distanti o nemiche, ma soggetti interessati ad un vivere civile e attento? Che rapporti potranno esserci tra i servizi e le centinaia di volontari che oggi consegnano spese e farmaci? Che cosa si potrà fare insieme, dopo? La solidarietà spontanea del lockdown ci sarà ancora nella fase 2?

 

La ricerca di risposte, l’incontro con le nuove sfide interrogano la responsabilità del singolo operatore sociale (e di tutte le comunità professionali di appartenenza) e la sua capacità di fare proposte, sul piano organizzativo, sul piano dei rapporti con la comunità locale e, sembra scontato ma non lo è, la scelta dei vertici degli enti gestori, se assumersi il rischio di cercare nuove modalità di erogazione dei servizi, o rimanere nell’esistente, ripercorrendo strade già tracciate anche se non più rispondenti a nuovi bisogni.

Per chiudere, la parola ad un filosofo. Natoli7 scrive

“il dolore si conosce per esperienza. Questo fatto è talmente evidente da sembrare perfino ovvio […] [e] l’esperienza del dolore produce e genera un modo del tutto nuovo di conoscenza […] rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione.”

 

Ognuno di noi sta sperimentando la discontinuità dalle pratiche quotidiane a cui eravamo abituati: chiuse scuole, negozi, impianti sportivi, bar; non sono solo più solo gli addetti ai lavori (ai lavori oscuri) quelli che guardano il dolore e il disagio negli occhi, senza sapere cosa dire, cosa fare.

La possibilità del patimento è universale e quindi ad essa si accompagna, sempre secondo Natoli, la possibilità della rivelazione, cioè della ricostruzione del mondo, come conseguenza della traumatica esperienza del dolore. La ricostruzione del mondo ha un significato diverso per ogni essere umano, ma si può assumere universalmente come una ricostruzione interiore: vivere ancora, nonostante la ferita, il lutto, la perdita.

Assumere questa prospettiva, da parte degli operatori sociali, può consentire di guardare avanti e di proporsi come l’estraneo che diventa persona di fiducia8, un interlocutore vero e reale, come singolo, come unità organizzativa, a cui appoggiarsi, per contrastare l’avvilimento del presente che oggi sono il Covid-19 e le sue conseguenze, e tante altre questioni sociali ancora irrisolte.

  1. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Vol. 2. All’ombra delle fanciulle in fiore, Einaudi Torino, 1978, p. 51.
  2. GalimbertI U., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999.
  3. Armitage R., Nellums L.B., COVID-19 and the consequences of isolating the elderly”, The Lancet. Public Health, Vol V, 5, E256, May 2020.
  4. Kadushin A., Il colloquio nel servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1980.
  5. Mirri A., “Emergenza Coronavirus e lavoro di servizio sociale d’urgenza, Welforum.it, 22 maggio 2020.
  6. Sau M., L’eredità persistente: l’emergenza della cura sociale tra passato e presente, Welforum.it, 28 aprile 2020.
  7. Natoli S, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 7-8.
  8. Pittaluga M., L’estraneo di fiducia. Competenze e responsabilità dell’assistente sociale, Carocci, Roma, 2000.

Commenti

1 riflessionei:sin dal 1987 il Telefono Azzurro, che allora coordinavo, ha istituito una hot line per privati cittadini ed una specifica per adolescenti.Gli operatori del Telefono Azzurro (assistenti sociali, psicologi, neuropsichiatri infantili all’epoca volontari) sono stati adeguatamente formati.non si è ritenuta sufficiente la formazione ricevuta per conseguire il titolo professionale. Quindi: chi formerà gli operatori sociali? con quali tempi?