Tempi di precarietà


Daniela Mesini | 11 Marzo 2020

Fino a poche settimane fa, solo la fantasia cinematografica più apocalittica avrebbe potuto farci piombare da un giorno all’altro in una tale situazione di precarietà, impotenza, paura e isolamento.

Eppure la stiamo vivendo, qui ed ora. E non è una guerra, non un asteroide che ha colpito la Terra tramite una roboante esplosione, ma è qualcosa di più subdolo, silenzioso, inafferrabile, che si è appropriato, senza chiedere permesso, delle nostre abitudini, delle nostre relazioni, delle nostre vite.

Certo la storia umana è costellata di calamità ed epidemie devastanti. Mucca pazza, Sars, tsunami per citarne solo alcune. La cosiddetta ‘spagnola’, per richiamare alla memoria un’influenza che ormai solo i più vecchi ricordano, avrebbe generato circa il doppio delle vittime della seconda guerra mondiale.

Ma come dice bene Antonio Scurati nel suo articolo sul Corriere della Sera del 21 febbraio u.s. questa epidemia ci ha spiazzati, perché nel 2020 sta minando “il prospero e medicalizzato Occidente”. Non è qualcosa che riguarda una piccola regione del sud del mondo, lontana da noi, o un evento circoscritto, seppur drammatico, ma ci ha invaso e spiazzato con una forza e una rapidità sconcertante, che ci ha colti decisamente impreparati e poi ci ha storditi e annichiliti, “noi nati, cresciuti e pasciuti nel più lungo periodo di pace e prosperità che la storia ricordi, noi che sappiamo tutto (o che crediamo di sapere tutto)”. E continua sempre Scurati, forse proprio la “distanza culturale” del nostro tempo e della nostra società dalla morte ha sicuramente contribuito ad enfatizzare due polarizzazioni di comportamenti nei confronti della situazione: la minimizzazione del problema da una parte, specie in fase iniziale, e l’eccessiva apprensione, che si trasforma in panico irragionevole dall’altra. Basti pensare anche ai recentissimi episodi di assalto ai supermercati, temendo un mancato approvvigionamento di scorte nei giorni a venire, o delle stazioni, per fuggire ‘al sicuro’ dai parenti in zone d’Italia ancora non contaminate.

 

E ora siamo sotto assedio, ma con la differenza che in una guerra colui che assedia è noto, visibile, per quanto possibile delimitabile, ma non è questo il caso e nessun posto sembra essere più sicuro.

Una prima riflessione su quanto sta accadendo è che sono completamente saltati i confini: tra nord e sud, tra ricchi e poveri, tra bianchi e neri. Tutto il mondo può esserne bersaglio e questa vulnerabilità universale ci fa ‘egoisticamente’ paura. È impressionante vedere la mappa interattiva della Johns Hopkins University che monitora la diffusione del corona virus in tempo reale, evidenziando con cerchi rossi più o meno grandi, i paesi via via colpiti e le crescite esponenziali nei contagi. Il bilancio dei contagi del Covid-19 è in continuo aumento ed ha ormai superato le 125mila persone, per la maggior parte concentrate in Cina, nella regione di Hubei, dove tutto è cominciato solo due mesi fa. Il tasso di mortalità si assesta introno al 4%, con delle differenze per paese. L’Italia, seppur a distanza, è al secondo posto di questa triste classifica, sia per contagi che per decessi, che crescono di ora in ora.

 

La seconda considerazione è che siamo di fronte ad un’emergenza senza precedenti, almeno per estensione, velocità di diffusione, ricadute possibili. Un’emergenza globale, come l’ha definita l’OMS, innanzitutto sanitaria, ma di certo anche economica e sociale. Giusto per fare un paragone, l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001, con tutto il suo vissuto e significato anche simbolico, aveva provocato la morte di 2.974 persone.

La priorità è sicuramente di tutela della salute. Come ormai è noto a tutti, non siamo di fronte ad una semplice influenza, per virulenza e letalità, specie per le persone anziane e quelle immunodepresse, ma non solo. L’epidemia sta mettendo a dura prova il sistema sanitario nazionale, sia in termini di disponibilità di posti letto, specie dei reparti ad alta intensità di cura, sia in termini di organizzazione del lavoro di medici ed infermieri, data la strutturale carenza di personale. È quanto ci ricordano sia Emanuele Ranci Ortigosa che Giuliana Costa, nel suo articolo su la Voce di New York, sottolineando le fatiche del sistema sanitario italiano e auspicandone un’adeguata revisione. Per quello ci sarà tempo, a partire da un’onesta messa in discussione delle scelte del passato.

 

Ma quello che conta ora, tornando alla seconda riflessione, è gestire l’emergenza. E per fermare il contagio servono più medici e infermieri impegnati in prima linea, riconversione di posti letto, presidi per sanitari e malati, respiratori, servono comportamenti rigorosi da parte di tutti. Servono misure prescrittive, sempre più prescrittive come quelle via via adottate dal nostro Governo che con l’ultimo Dpcm del 9 marzo, allarga la ‘zona rossa’ a tutta la Penisola, estendendo all’intero territorio nazionale quanto già previsto dall’art. 1 del Dpcm dell’8.3. La chiusura delle scuole e delle università, di teatri, cinema ed impianti sportivi, il divieto ad assembramenti e forme di aggregazione, la riduzione all’osso di qualsiasi forma di spostamento salvo che per comprovate esigenze lavorative e di salute e l’utilizzo di forme di smart-working sembrano rappresentare l’unico strumento che abbiamo per contenere i contagi, limitare e rallentare la sua diffusione e permettere una cura a chi ne ha bisogno. A breve forse dovremo andare verso restrizioni anche maggiori, sul modello cinese, almeno nelle regioni più colpite.

 

Emergenza, seppur seconda in ordine di importanza è anche quella economica. Rispetto all’impatto sull’economia, Francesco Giavazzi, professore del Dipartimento di Economia dell’Università Bocconi di Milano, evoca un quadro macro-economico di choc sul sistema di offerta, provocato dai prevedibili rallentamenti nella produzione di beni e servizi causati dalla chiusura delle fabbriche e degli stabilimenti. Questo choc potrà essere tanto maggiore quanto più lungo sarà il decorso dell’epidemia, ad oggi non prevedibile. Gli strumenti a disposizione del Governo e della Banca Centrale Europea di politica fiscale e politica monetaria, possono intervenire sul lato della domanda, cioè supportando i consumi, e possono funzionare, solo parzialmente, in un contesto futuribile di penuria di offerta di beni e servizi, dice sempre Giavazzi. Ma ora, ancora una volta, dobbiamo pensare all’emergenza, aumentando la spesa sanitaria per sostenere gli ospedali e le cure, senz’altro, ma anche rivolgendo l’attenzione a chi un lavoro non ce l’ha, o a chi è precario, autonomo, magari anche estendendo il Reddito di Cittadinanza, consentendo la copertura degli stipendi e dando un po’ di liquidità ed ossigeno a lavoratori, imprese e consumatori.

Ed è in questa direzione che si sta muovendo il Governo attraverso l’introduzione di una serie di misure per ridurre gli effetti economici dell’epidemia, ad esempio attraverso, il posticipo dei termini per la dichiarazione dei redditi, la sospensione dei versamenti ed adempimenti tributari, l’integrazione salariale, l’istituzione di Fondi di Garanzia. Evidentemente molto e di più si potrà fare, anche a livello europeo, a partire da un coordinamento unitario dell’emergenza, al di là dello ‘sconto’ sul Programma di Stabilità per il 2020, già concordato tra Governo Italiano e Commissione Europea, che considererà le spese necessarie per salvaguardare la salute dei cittadini e mitigare gli effetti negativi del Coronavirus sull’economia compatibili con le regole europee e dunque escluse dal deficit strutturale.

In questo quadro, ben vengano poi tutte le iniziative attivate in questi giorni tese a reperire risorse aggiuntive per fronteggiare l’emergenza, attraverso donazioni e raccolte fondi da parte enti, fondazioni e privati cittadini, più o meno famosi, rivolte a presidi sanitari ma anche ad organizzazioni del terzo settore per il potenziamento di servizi ed interventi rivolti ai soggetti più fragili.

 

La mia terza ed ultima considerazione va infine al necessario senso di responsabilità e rispetto delle regole. Gli italiani sono famosi per fantasia e creatività ma in questa situazione né l’una né l’altra ci possono giovare, né tantomeno l’ognun per sé. Serve rigore, senso civico.

Riprendo volentieri uno stralcio della lettera magistrale che Domenico Squillace, preside del Liceo Volta di Milano, ha indirizzato lo scorso 25 febbraio ai suoi studenti e che è molto girata sui quotidiani e sui social: “…uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano il Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l’imbarbarimento del vivere civile. L’istinto atavico quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore. Rispetto alle epidemie del XIV e del XVII secolo noi abbiamo dalla nostra parte la medicina moderna… usiamo il pensiero razionale di cui è figlia per preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità.”

 

Siamo in emergenza, non c’è dubbio, si naviga a vista e sono necessari i sacrifici di tutti.

Sono tempi di precarietà e anche di trepidazione, di angoscia, paura. Serve unità, seppur nella distanza. Ecco allora che, mai come oggi, occorre anteporre il bene nazionale agli interessi di partito, il bene collettivo agli interessi individuali, chiamare alla responsabilizzazione di tutti e ciascuno, nella speranza che questa notte finisca presto.